sabato 31 ottobre 2009

Un mare di pesce velenoso nella pattumiera del mondo

Risale al 27 ottobre scorso l’ultimo rapimento dei pirati somali, ai danni di uno yacht inglese. Una lista interminabile, che ci riguarda da vicino; i casi di rapimenti di italiani sono stati moltissimi, a incominciare dalla famosa Boucanier. Pirati, sì certo. Ma alcuni di questi gruppi rivendicano per sé il titolo di eroi nazionali. Per capirne di più dobbiamo ritornare al 20 marzo 1994, quando venne uccisa la giornalista della Rai Ilaria Alpi a Mogadiscio. Nonostante quanto assodato dalla commissione parlamentare di inchiesta in Italia, altre indagini indipendenti avrebbero dimostrato che la Alpi aveva scoperto il traffico europeo di rifiuti radioattivi in Somalia.

Quella che, all’epoca, suonava come un’ipotesi investigativa minoritaria, oggi sembra essere confermata dalla nostra esperienza recente; fatta di ecomafie che insozzano il pianeta, dall’Africa alla Calabria. Nel 2004, si avvalorano le ipotesi della Alpi. Uno tzunami sventra le spiagge somale e rivela i rifiuti radioattivi. Le Ong, i Verdi e i giornalisti si mettono all’opera. L’eurogruppo dei Verdi presenta al Parlamento di Strasburgo copie di contratti sottoscritti dalla italo-svizzera Archair Partners e dall’italiana Progresso. In quei documenti emerge come si prezzolasse il corrotto governo locale somalo, a suon di 80 milioni di dollari, per consentire lo sversamento illegale di 10 milioni di tonnellate di rifiuti tossici europei.

Il vaso di Pandora era stato scoperchiato; nel 2008, Al Jazeera pubblica le conclusioni di tecnici Onu dell’Unep (programma delle Nazioni unite per l’ambiente). L’esperto Ahmedou Ould-Abdallah dichiara pubblicamente che quelle che, nei primi anni Novanta, erano solo illazioni, ora sono ipotesi documentate dall’Onu. «In Somalia, aziende europee e asiatiche hanno sversato anche rifiuti nucleari». Nick Nuttal, dell’Unep, sottolinea come «le aziende europee trovino molto conveniente sbarazzarsi dell’immondizia in Somalia; con costi pari a 2,5 dollari a tonnellata, contro i circa mille dollari del marcato legale». Nei fondali africani si può trovare mercurio, uranio, cadmio, rifiuti chimici e farmaceutici, ospedalieri, industriali. I risparmi nello smaltimento dei rifiuti sono tali da rendere conveniente anche l’inabissamento di intere navi, come è emerso dal caso delle “navi dei veleni” in Calabria.

Nel 2005, infatti, il quotidiano inglese The Independent aveva intervistato il pirata somalo Segule Alì che dichiarava: «Non ci consideriamo banditi. Sono banditi quelli che hanno sversato e pescato illegalmente nelle nostre acque». Emergeva, infatti, anche un altro elemento. Dallo scoppio della guerra civile in poi, il governo non riesce a garantire il controllo delle acque territoriali. E alcune aziende europee giungono qui a pescare illegalmente; nello stesso mare dove abbandonano rifiuti radioattivi. La situazione è tale che, il 10 ottobre 2008, il Chicago Tribune pubblica un’intervista al professore Peter Lehr che conclude: «È una sorta di compensazione informale. I pirati ricavano 100 milioni di dollari l’anno dai rapimenti a danno di europei e asiatici. Questi ultimi si appropriano di 300 milioni di dollari in pesce proveniente dalla Somalia».

Ecco perché i pirati vengono percepiti come degli eroi nazionali che proteggono il territorio dalle soverchierie dei ricchi, a difesa delle comunità locali e contro un governo nazionale corrotto che tollera le incursioni piratesche del “mondo ricco”. L’anno scorso, infatti, l’Associated Press pubblicava un report dei giornalisti Mohammed Hassan e Elizabeth Kennedy che testimoniava il consenso dei pirati presso le comunità; perché è nel territorio che i pirati spendono i proventi delle loro scorrerie. Nel 2008, la Bbc e il quotidiano britannico Guardian partono con una serie martellante di inchieste: svelano come i pirati siano, infatti, in larga parte, ex pescatori impoveritisi a causa della pesca di frodo altrui.

Emergono le responsabilità di imprese europee di ogni Paese. Sembrerebbe che sia lo stesso governo, quello non riconosciuto della provincia separatista somala del Puntland, ad appoggiare i pirati per esercitare quella sovranità sulle coste che non attua, per convenienza, il governo di Mogadiscio. Quello che, oggi, si sta delineando con grande chiarezza è che il “Nord ricco del mondo” ha utilizzato i “Sud” come pattumiera. Le aziende europee, più brillantemente, hanno sversato in Africa. Quelle italiane, come raccontato in Gomorra di Saviano e secondo quanto viene a galla dalle inchieste iniziate dal compianto capitano Natale De Grazia, addirittura in Italia. Ma la lontananza non deve trarre in inganno. Un’altra zona vessata dalle discariche è il Vietnam: da dove proviene l’economico pesce pangasio, vero recente bestseller della grande distribuzione in Italia. Ma i conti, prima o poi, si pagano. Sempre.

di Alessio Postiglione, «Terra», 29 ottobre 2009

I disastri di Impregilo nel mondo

Ghiacciaio islandese del Vatnajökull; siamo alle pendici. L’altopiano del Kárahnjúkar, quasi inesplorato fino al 2000, ospita un canyon che potrebbe essere definito l’ottava meraviglia del mondo. Se il più famoso Grand Canyon d’America deve la sua maestosità al vestito rosso uniforme che gli conferisce la roccia del deserto dell’Arizona, il Kárahnjúkar ti lascia senza fiato per la sua sorprendente varietà di forme e colori. Provate ad immaginare scarpate di roccia lavica che variano dal rosso acceso al grigio scuro del basalto; provate ad immaginare il fianco della gola ora a strapiombo verticale, ora a gradini, ora a pilastri; la formazione rocciosa ora continua, ora fratturata; il corso del fiume che ora si mostra placido, ora regala una sequenze di cascate; sullo sfondo del cielo pulito ed imbronciato d’Islanda, il canyon solca l’altopiano ricoperto di una prateria nordica verdeggiante e di un tappeto di fiori primaverili.
Per completare il quadro, pensate questo luogo abitato da oche dalle zampe rosa, renne, volpi artiche, cigni trombettieri, gufi delle nevi. Infine, gustate la vista del posto dal vero sul sito www.inca.is/show.
Godetevi lo spettacolo finché siete in tempo, perché sta scomparendo a forza di cariche di dinamite e di un graduale allagamento. Sta prendendo il suo posto l’invaso di una centrale idroelettrica che altererà l’ecosistema di un territorio di 3000 kmq (quanto una media provincia italiana) per alimentare il più grande impianto di produzione di alluminio d’Europa, proprietà della multinazionale Alcoa.
Ovviamente, non sono finora valsi a fermare il progetto del governo né la forte resistenza dei cittadini islandesi che non ricevono ritorni di occupazione e sviluppo (la manodopera a basso costo è straniera), né la bocciatura dell’Agenzia nazionale per la Pianificazione del Territorio. Ostacoli tecnici si sono presentati invece nel 2007, quando l’Azienda nazionale per l’Energia ha cominciato le prove di riempimento dell’invaso e contemporaneamente si sono attivate manifestazioni sismiche e vulcaniche; perciò il livello del lago ad ottobre non arrivava neppure a sfiorare le condotte forzate, rendendo ancora inutilizzabile l’impianto, mentre a dicembre un simposio di geologi preannunciava un’intensa fase vulcanica.
Se volete, sul sito prima menzionato, potete esprimere il vostro dissenso a questo progetto, a cui si prevede di far seguire analoghi sbarramenti ai principali fiumi islandesi.
Realizza l’opera la multinazionale Impregilo, primo gruppo italiano di ingegneria e general contracting, attivo in tutti i continenti nei settori delle costruzioni, degli impianti e delle concessioni (dighe, autostrade, aeroporti, ferrovie, metropolitane, ospedali, trattamento acque e rifiuti).
Un’altra opera compiuta negli ultimi anni da Impregilo è il Tunnel di 5 km scavato sotto l’Alto de Boqueron in Colombia, destinato a ridurre di soli 22 km la distanza tra la capitale Medellin e Santa Fé. L’opera ha causato un forte indebitamento estero delle autorità pubbliche e la chiusura dei programmi innovativi a favore delle categorie di cittadini più disagiate (indigenti, bambini di strada, ecc.) a cui peraltro non offre occupazione. Anzi, la popolazione rurale confinante con l’infrastruttura, in qualità di presunta beneficiaria, ha subito prima una tassazione aggiuntiva, poi l’evacuazione. Infatti le attività di scavo e sbancamento hanno prodotto frane di colline, crolli di abitazioni, disboscamenti e mutazione del regime delle acque. I tecnici dell’Università di Medellin ne attribuiscono le cause alle modalità di lavoro adottate. Il progetto non sembra accompagnato da adeguati studi geologici, valutazioni d’impatto e stime di costo corrette. Le cave dei materiali e le discariche di inerti sono state ubicate tenendo conto della convenienza e della comodità delle ditte subappaltanti, non di criteri di stabilità dei versanti e di pianificazione del territorio.
A leggere la ricostruzione della vicenda (fatta in 36 pagine da Antonio Mazzeo, italiano impegnato nella cooperazione internazionale), si delinea un quadro tanto inquietante quanto circostanziato e documentato e si comprende come la realizzazione del tunnel alimenti la voracità della borghesia e dei politici locali, gli interessi stranieri e le condizioni di povertà su cui alligna la criminalità colombiana, autrice di massacri e sparizioni.
Con copioni simili, di pessima responsabilità socio-ambientale, Impregilo figura nella realizzazione di grandi progetti, spesso sovradimensionati, sostenuti dalla Banca Mondiale e dalla finanza internazionale, che indebitano il Sud del Mondo e lo condannano al sottosviluppo. Le dighe realizzate in Guatemala, Nigeria, Turchia, Nepal, Lesotho, Argentina hanno destato scandalo per la cattiva progettazione o per lo sfruttamento intensivo della manodopera, l’assenza di condizioni di sicurezza, le devastazioni ambientali, i fenomeni di corruzione internazionale. In particolare, la diga di Chixoy in Guatemala, definita dalla “Campagna per la Riforma della Banca Mondiale” un debito ecologico dell’Italia nei confronti del paese centro-americano, servì a garantire vantaggi economici agli USA e a rafforzare il governo militare guatemalteco che non esitò a reprimere la protesta degli indigeni con il sangue di 400 persone.
Anche in Italia l’Impregilo si è specializzata nell’aggiudicarsi opere faraoniche dalle ricadute assai controverse sui beni economici, ambientali e culturali, come: il ‘Mose’ di Venezia, il Ponte sullo Stretto, il parcheggio sotterraneo del Gianicolo, il progetto di trasformazione urbanistica del porto e del centro storico di Sorrento, gli impianti di trattamento di rifiuti in Campania.
In questa regione, il Commissariato di Governo consentì alla FIBE-Impregilo la scelta dell’ubicazione dell’impianto di termodistruzione di Acerra, in base a criteri di propria convenienza, e consentì l’adozione di una tecnologia obsoleta per lo stesso, in deroga alle competenze di pianificazione territoriale e di valutazione ambientale proprie dell’ente pubblico. Inoltre gli impianti di produzione di CDR, in violazione dei requisiti contrattuali, si limitano a separare i rifiuti in due flussi identici e ad imballarli. Per questo motivo si ha una fame di siti di stoccaggio a tempo indeterminato per ecoballe inidonee ad essere bruciate ed una fame di discariche per la frazione organica non correttamente trattata. La cattiva individuazione e gestione di tali siti e discariche, da parte del Commissariato, genera di frequente il sequestro dei siti stessi da parte della magistratura e la contestazione dei cittadini, alimentando l’emergenza per i rifiuti che si accumulano nelle strade.
Secondo i magistrati partenopei, che hanno disposto il sequestro di 750 milioni di euro delle aziende controllate da Impregilo, “…il comportamento delle società non appariva lineare in quanto, pur essendo consapevoli fin dall'inizio che lo smaltimento dei rifiuti non avrebbe potuto funzionare, hanno fatto di tutto per dissimulare tale situazione…”.
In conclusione è importante evidenziare che convergono nella multinazionale Impregilo gli interessi di imprese centrali dell’economia italiana; il gruppo FIAT, importanti società di costruzioni, gestori di autostrade e di trafori, gruppi bancari e assicurativi tra i più noti figurano nel tempo come azionisti della società e ai vertici della stessa inseriscono propri dirigenti (come i fratelli Romiti). Sul gruppo potrebbero lanciare un’offerta d’acquisto nei prossimi mesi Benetton, la finanziaria Gavio e l’immobiliare Ligresti, riunite nella società Igli.


Di Andrea Saccardo, «Bollettino delle Assise della Città di Napoli e del Mezzogiorno d'Italia», dicembre-febbraio 2008

Per riferimenti e approfondimenti:
http://www.inca.is/show/; http://www.percorsietnici.net; www.impregilo.it; http://terrelibere.org/index.php?x=completa&riga=35 ;
http://www.90est.it/karahnjukar.html; http://www.90est.it/bomben.html; http://www.islanda.it/modules.php?name=News&file=print&sid=686;
http://www.savingiceland.org/
http://www.panagea.eu/web/index.php?option=com_content&task=view&id=86&Itemid=2>%20&task=view&id=86&Itemid=2
http://archivio.carta.org/rivista/settimanale/2003/39/39Fulignoli.htm;
http://www.pmli.it/milleaffariitaliamondogruppoimpregilo.htm;
http://www.verdinrete.it/sorrento/impregil.htm.

Radiografia di una truffa

STORIA di presidenti e commissari, di banche e balle, di eroi e guastatori. La spazzaturaè sparita dalle strade, il termovalorizzatore ha aperto i battenti e lo Stato è tornato. Tutti contenti. Ma il conflitto sorto intorno alla Procura e ai processi ancora in corso ricorda che c' è ancora un nodo da sciogliere. Riguarda la vecchia dirigenza Impregiloe non gli eroi cantati da Berlusconi ad Acerra, ma vede ancora la nascita del termovalorizzatore sotto giudizio. È una storia che inizia undici anni fa. È il 1998: la Regione guidata all' epoca dal centrodestra di Antonio Rastrelli lavora a un nuovo ciclo di smaltimento rifiuti. A giugno partono il bando e i capitolati d' appalto. E, come sostiene l' ormai celebre perizia del professor Paolo Rabitti, cha fa da cicerone all' intera inchiesta successiva, è da lì che iniziano i guai. Il bando avrebbe dovuto seguire una precedente ordinanza emanata dall' allora ministro dell' Interno Giorgio Napolitano. Vi si chiedeva in sostanza di prevedere una raccolta differenziata al 35 per cento, il trattamento dei rifiuti al netto di questo 35 per cento, il riconoscimento degli incentivi Cip6 fino a un massimo del 50 per cento dell' intera produzione di rifiuto in regione. Un insieme di prescrizioni che aveva proprio l' obiettivo di proteggere la differenziata dal rischio che prevalesse invece l' interesse a far più soldo possibile con la maggior quantità possibile di materiale bruciato. Ma la storia prende subito un' altra piega. Già il bando prevede impianti sovradimensionati rispetto a quel tetto del 50 per cento, non vengono chiesti requisiti per gli impianti di Cdr, il punteggio è tarato in modo da premiare l' offerta economica rispetto alla qualità tecnica del progetto. È la famosa pagella passata alle cronache anche del Parlamento. È in sede di commissione d' inchiesta infatti che il consulente Umberto Arena, quello di cui Antonio Bassolino negò a "Report" di aver mai saputo «chi c....» fosse, a riferire di come al progetto Fisia (l' allora società del gruppo Impregilo che partecipò a una gara dalla quale doveva essere esclusa subito per irregolarità) fosse stato assegnato un voto tecnico di soli 4.2 punti. Una bocciatura, compensata però dalla valutazione assai più consistente sui costi previsti, 83 lire al chilo, e sui tempi di realizzazione, 300 giorni. Pesarono soprattutto i costi: il raggruppamento concorrente, guidato dalla Foster Wheeler,e di cui faceva parte anche l' Enel, proponeva ben 110 lire al chilo. La valutazione tecnica di Rabitti dirà poi che quelle 83 lire al chilo potevano essere offerte solo sapendo che si sarebbe bruciato assai più materiale del lecito. Qui Rabitti scopre l' atto che fa da architrave a tutte le modificazioni successive della filosofia del piano. Succede infatti che il 12 ottobre 1998 l' allora ministro Edo Ronchi già contesti a Rastrelli le incoerenze del bando. Ma il giorno dopo Rastrelli riceve una lettera dell' Abi: le banche che devono finanziare il progetto fanno sapere che con quel tasso di differenziatai guadagni non sarebbero sufficienti agli impianti e dunque suggerisce di far pagare comunque ai Comuni l' intera spazzatura prodotta, non solo quella conferita ai termovalorizzatori: significa spingere i Comuni a non spendere altri soldi in differenziata. Le banche chiedono anche di eliminare un' altra norma prospettata da Napolitano: il Cdr prodotto nelle more della costruzione dell' impianto non va smaltito altrove, ma stoccato in regione fino a sua utilizzazione nell' impianto stesso. È un' altra mossa dal chiaro sapore industriale, che consente in futuro di godere del Cip6 anche sull' energia prodotta con quel materiale. Materiale che poi aumenterà nel tempo. Vuoi per gli impedimenti alla costruzione dell' impianto, ma anche, come dice ancora Rabitti, perché nel frattempo anche i Cdr proposti sono inadatti e producono più materiale da mandare al forno e meno compost e fos. Sta di fatto che a ottobre Rastrelli dice alle banche che se ne parlerà poi, ma a dicembre viene sollevato dal «ribaltone». Si insedia un centrosinistra guidato da Andrea Losco. Come Rastrelli, anche lui verrà nominato commissario e porterà in porto il progetto Fisia, assegnando la gara nel marzo del 2000. Salvo poi lasciare a giugno la firma al neopresidente Antonio Bassolino. Fin qui la ricostruzione storicotecnica del disastro. Con l' assunto che i 6 milioni di ecoballe che hanno invaso la Campaniae le ricorrenti crisi di spazzatura per strada siano il frutto di un errore di impostazione: l' aver sacrificato la differenziata a favore della sostenibilità economica del ciclo industriale del termovalorizzatore e, probabilmente, anche della camorra che a sua volta ha lucrato in questi anni sul terreno a lei preferito, il trasporto in siti e discariche del materiale che si andava accumulando. Se poi tutto questo abbia costituito un progetto doloso per favorire sin dall' inizio gli interessi degli «eroi» di Impregilo, questo è appunto l' oggetto del processo in corso.
Di ROBERTO FUCCILLO, «la Repubblica», 1 aprile 2009

sabato 24 ottobre 2009

La terra in svendita

Niente carri armati. Zero aerei, soldati e cannoni. Il neo-colonialismo del terzo millennio (copyright della Fao) va alla conquista di nuove terre da sfruttare a bordo di comodi trattori. Spargere sangue per annettersi un pezzo d´Africa, Asia o Sudamerica non serve più. Oggi - per alzarci la propria bandiera - c´è un metodo molto più semplice: comprarselo. Il Terzo mondo, messo in ginocchio dai dazi agricoli e dai capricci dei prezzi delle materie prime, si è messo in vendita. E i paesi più ricchi (ma non solo) - consci che tra pochi anni terra e acqua saranno risorse più preziose del petrolio - fanno già la fila per accaparrarsi le nazioni in saldo.
Questo risiko sulla pelle delle aree più povere del pianeta è aperto a tutti. Si muovono governi, grandi aziende, fondi sovrani, persino i privati. Philippe Heilberg, ex banchiere a Wall Street e oggi numero uno della Jarch Capital (società dietro cui ci sono molti ex-uomini della Cia e del dipartimento di Stato Usa), si è regalato due settimane fa 400mila ettari di campi fertili in Sudan lungo le sponde del Nilo.
Una maxi-fattoria grande come tutto il Dubai. Venditore: Gabriel Matip, figlio di Paulino, il signore della guerra che da anni controlla in punta di fucile queste zone. Il Madagascar ha "affittato" alla Daewoo per 99 anni 1,3 milioni di ettari, una superficie superiore a quella del Belgio e pari al 50% della terra arabile malgascia. Qui i trattori dei sudcoreani coltiveranno mais e olio di palma da destinare ai consumi interni di Seul. «L´intesa è solo all´apparenza commerciale - commenta Carl Atkins di Bidwell Agribusiness, società di consulenza che si occupa di questo tipo di transazioni - In realtà è sponsorizzata dal governo della Corea del sud nel nome degli interessi strategici nazionali di sicurezza alimentare».
«Siamo di fronte a un fenomeno che non possiamo non catalogare alla voce del neo-colonialismo», ha lanciato l´allarme il numero uno della Fao Jacques Diouf pensando al 70% dei cittadini del Madagascar che vivono al di sotto della soglia della povertà. Ma fermare il vento con le dita è impossibile. La Cina - paese dove l´acqua (scarsissima) vale già come oro - ha messo le mani avanti dal 2007 comprando a suon di renminbi centinaia di migliaia di ettari nelle Filippine, in Sudan e Kazakhstan. La Libia ha barattato uno po´ di barili del suo greggio per aggiudicarsi i diritti su un pezzo di Ucraina. Quindici investitori sauditi hanno puntato 4 miliardi di dollari per sviluppare 500mila ettari in Indonesia. Obiettivo: piantare riso Basmati da riesportare poi in Arabia.
Il problema della Fao e delle organizzazioni non governative - allarmate per le drammatiche conseguenze sui milioni di persone che oggi campano coltivando queste terre - è che le vittime del neo-capitalismo, affamate di capitali e investimenti, sono le prime a mettere la testa sotto la ghigliottina. La Cambogia, ingolosita dalle intese indonesiane, ha messo in vendita pezzi enormi del paese. «Vogliamo incassare 3 miliardi - ha detto orgoglioso Suos Yara, sottosegretario alla cooperazione economica di Phnom Penh - Abbiamo contatti avanzati con Kuwait e Qatar». Che dalla sabbia dei loro deserti riescono a cavare solo petrolio. Stessa musica in Etiopia: «L´asta per i nostri campi è aperta, ci servono tecnologie e soldi», ha annunciato il primo ministro di Addis Abeba Meles Zenawi.
Ad accelerare questo suk, che sta ridisegnando la mappa del mondo senza sparare una sola pallottola, è stata la bolla speculativa sui prezzi delle materie prime alimentari del 2008. Il problema, dicono i sociologi, è semplice. La popolazione del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse. Nel 1960 ogni essere umano aveva a disposizione 4.300 metri quadri del pianeta per il suo sostentamento alimentare. Oggi siamo scesi a 2.200 e nel 2030 il nostro "spazio vitale" sarà di soli 1.800 mq. Altro che dipendenza dal greggio: «Allargare la terra a disposizione dei propri cittadini sta diventando sempre più una priorità strategica per i governi che sanno guardare più lontano», dice Atkins. Quelli che non sono capaci (o non possono permettersi di farlo) invece vendono.
Le cose tra l´altro, dicono gli esperti, rischiano solo di peggiorare. «La prossima emergenza si chiama acqua - sostiene Chiara Tonelli, docente di genetica all´università degli studi di Milano e consulente dell´advisory group sull´alimentazione della Ue - Il 70% delle risorse idriche viene utilizzato oggi per l´agricoltura e il cambio delle abitudini mondiali dalla dieta vegetale alla carne (per produrre un chilo di riso ci vogliono mille litri d´acqua, per un chilo di carne 45mila) aggraverà questo problema. Ragion per cui chi può va a comprarsi e consumare l´acqua degli altri». La Cina è l´esempio più lampante: a Pechino non manca certo la superficie arabile. Ma la cronica indisponibilità di sorgenti e fiumi ha convinto il governo da qualche anno ad adottare una certosina politica di acquisizioni di terra all´estero (da Cuba al Messico, dall´Australia all´Uganda fino alla Russia e alla Tanzania) che ha consentito di alzare la bandiera rossa su quasi 3 milioni di ettari in giro per il mondo.
Il problema è chiaro (e antico): i paesi più potenti e ricchi si riempiranno in futuro la pancia a spese di quelli più poveri. Offrendo in cambio poco più di un piatto di lenticchie. Ma cosa si può fare per arginare questo fenomeno? La Fao, alle prese con un miliardo di persone che soffrono di fame (un numero che cresce invece di diminuire), ha proposto di avviare un piano di aiuti d´emergenza all´agricoltura delle nazioni più arretrate per non costringerle ad appendere il cartello "Vendesi" sulle proprie terre. Peccato che in piena crisi finanziaria i big del G-8 non trovino i soldi nemmeno per rimediare alle voragini aperte dalla loro finanza creativa.
La scienza ha la sua ricetta: se le terre non si possono allargare, spiegano pragmaticamente nelle università, si può provare a farle rendere di più. «Oggi il 30% della produzione agricola è perso per stress come malattie e mancanza d´acqua - spiega Tonelli - Una cifra enorme. Basterebbe riuscire a rendere le piante più resistenti alla siccità o recuperare alla coltivazione i terreni marginali per disincentivare la convenienza economica allo shopping di terre all´estero». Una risposta di mercato forse più efficace degli appelli della Fao. Le conoscenze scientifiche per arrivare a questi risultati tra l´altro, grazie al sequenziamento dei genomi, ci sono già. Ma le resistenze alle modifiche genetiche, il crollo dei fondi per la ricerca e le lungaggini dei processi d´approvazione non autorizzano a sperare in una rapida soluzione scientifica alle esigenze alimentari del mondo.
La via dunque è stretta ed è in questo crinale sottile che si tuffano tutti, dai governi ai bucanieri della finanza come Heilberg. «Agricoltura? Io non ne capisco niente - ha ammesso il numero uno della Jarch, ex manager della disastrata compagnia assicurativa Aig, dopo lo shopping in Sudan - So solo che questa è terra fertile in una zona instabile. E quando la situazione sarà tranquilla, con la richiesta di asset come questi che c´è in giro per il mondo, noi faremo grandi affari». Nessun rimorso per aver negoziato con un signore della guerra. «So che Paulino ha ucciso molta gente - ha confessato al Financial Times - ma l´ha fatto per difendere il suo popolo».
Pecunia non olet, il denaro non ha odore. «Io ho tutti i giorni sotto il naso la mappa del mondo per andare a di nuove occasioni - conclude Heilberg - E sto già guardando al Darfur». Il neo-colonialismo - un´arte raffinata - riesce ormai persino a far combattere le sue guerre dagli eserciti altrui.

di Ettore Livini, «la Repubblica», 31 gennaio 2009

Dambisa Moyo denuncia: Gli aiuti salvano i dittatori e condannano l'Africa

«Gli aiuti occidentali all' Africa hanno avuto il solo effetto di trasformare una terra già povera in una ancora più povera. Oggi il 50% degli africani vive con meno di un dollaro al giorno, vent' anni fa la percentuale era la metà». Dambisa Moyo, 40 anni, nata e cresciuta a Lusaka, capitale dello Zambia, potrebbe essere la personificazione del riscatto di un continente: laureata in scienze politiche ad Harvard, PhD in finanza ad Oxford, economista prima alla Banca Mondiale e poi alla Goldman Sachs, è stata inserita dalla rivista Time (edizione dell' 11 maggio) fra le cento most influential people del mondo a fianco di Barack Obama e Paul Krugman. È venuta a Torino invitata dalla Scuola di formazione dell' Onu a tenere una conferenza sulla leadership. Assertiva, sicura di sé, applaudita e rispettata. E invece trasuda amarezza: «In Zambia non potrei tornare. Ci vado quattro volte l' anno, ho lì i miei genitori e tutta la famiglia, ma che lavoro andrei a fare?» E tutto questo, sostiene, è dovuto alla cornucopia di elemosine con cui il mondo industrializzato tiene al laccio l' Africa. Ora ha scritto un libro, Dead Aid, che rovescia le posizioni del Live Aid: sostiene che gli aiuti fanno più male che bene all' Africa. Infatti l' anno chiamata l' antiBono. Ma che male fanno tutti questi artisti che raccolgono fondi per l' Africa? In fondo sono soldi, e con i soldi si costruiscono scuole, ospedali, infrastrutture... «Guardi, tutte queste celebrities, Bono, Bob Geldorf, Angelina Jolie, Madonna, intanto si fanno una gran pubblicità a spese dell' Africa. Poi hanno la pretesa di parlare a nome dei paesi africani nelle sedi internazionali, quando ognuno di questi paesi ha un suo governo che dovrebbe essere legittimato ad esprimere le istanze del paese che rappresenta. Ancora, fanno filtrare un messaggio eternamente negativo: l' Africa è secondo loro solo un continente di guerre, malattie, sciagure di ogni tipo. Ora, non dico che la situazione è l' opposto, figuriamoci, ma qualcosa di positivo accade pure. Infine, ed è il vero nodo, anche i fondi da loro raccolti finiscono in quel gran calderone di aiuti che è la vera sciagura dell' Africa». Ecco il punto centrale: gli aiuti fanno male. Ma non è una contraddizione in termini? «Le rispondo con un fatto. Negli ultimi 60 anni sono stati erogati sussidi per oltre mille miliardi di dollari. Le sembra che questi siano serviti a migliorare le condizioni di vita del continente? La situazione non solo è peggiorata ma è affondata oltre ogni ragionevole limite. E questo è tanto più irritante se si pensa che il 60% degli africani, che sono più di un miliardo di persone, ha meno di 24 anni. È una gioventù immensa, che sarebbe piena di entusiasmi, di voglia di fare, di attivismo. E invece è calata in una realtà avvilente che non riesce ad uscire dal baratro». Qual è il meccanismo per cui gli aiuti si trasformano in un danno? «Il primo e più conosciuto è che finiscono nelle tasche di dittatori spregiudicati e sanguinari anziché essere distribuiti alla popolazione. Il solo Mobutu, presidente dello Zaire dal 1965 al 1997, ha rubato almeno 5 miliardi di dollari al suo paese. Ma gli esempi sono un' infinità. Per restare a quelli più vicini a noi, il mese scorso il presidente del Malawi, Bakili Muluzi, è stato accusato di aver intascato 12 milioni di dollari di aiuti. E l' ex presidente del mio paese, lo Zambia, Frederick Chiluba, che è stato un prediletto dall' occidente per tutti gli anni della sua reggenza dal 1991 al 2001, è tuttora coinvolto in un caso giudiziario sotto l' accusa di aver sottratto milioni di dollari alle strutture sanitarie ed educative cui erano destinati. E vogliamo parlare di Mugabe dello Zimbabwe, o di tanti altri dittatorelli sparsi in tutto il continente? Almeno per Mugabe gli aiuti sono congelati, ma per tutti gli altri continuano a fluire assolutamente senza controllo. Sono soldi dei contribuenti europei o americani: come diceva l' economista ungherese Peter Bauer significa sottrarli dalle tasche dei poveri nei paesi ricchi per infilarli in quelle dei ricchi nei paesi poveri». La sua accusa però va ben oltre... «Anche astraendoci da questi casi perversi, gli aiuti determinano tutto un meccanismo che chiamerei di welfare. Ecco, l' Africa è un continente sotto un regime di welfare. I governi sono demotivati dall' assumere iniziative di vero sviluppo, di vera crescita del tessuto industriale, agricolo e dei servizi, perché sanno che comunque verranno rifinanziati presto dal generoso occidente. Pensano piuttosto a creare intanto degli eserciti forti perché fanno sempre comodo a chi è al potere, e poi delle strutture burocratiche ameboidi che hanno il solo scopo di conservare lo status quo, perché la condizione attuale è quella che più conviene: restare sottosviluppati perché così arriveranno presto altri aiuti, e poi altri e poi altri. I governanti perdono tutto il loro tempo a corteggiare i potenziali donatori, disinteressandosi delle vicende interne. È un circuito diabolico di assistenzialismo che toglie dignità, non serve alla crescita e occorre assolutamente spezzare». Ma come? Lei contempla nel suo libro l' ipotesi di congelare per cinque anni tutti gli aiuti... «Sì, ma probabilmente sarebbe più realistico intraprendere un preciso scadenzario, e fissare paese per paese un giorno, cominciando ovviamente dai meno poveri, in cui gli aiuti cessano. Pensi all' India: nel 2004 il governo chiese all' occidente di smettere di inviare aiuti. Da quel momento il paese si è trasformato in uno dei più straordinari esempi di sviluppo del pianeta». Però non potrà negare che con gli aiuti si è riusciti a portare a scuola tanti bambini, e drammatiche malattie sono state sconfitte... «Ma infatti ci sono dei casi umanitari e di vere emergenze in cui gli aiuti servono, come d' altronde in tutto il mondo. Ma questi sono una minima parte della valanga di flussi di denaro che investono l' Africa senza costituire una piattaforma di sviluppo sostenibile di lungo termine. Io accuso soprattutto gli aiuti diretti da governo a governo. È diventato un immenso business dove ci guadagnano tutti tranne l' Africa: le "benemerite" fondazioni americane, le multinazionali alimentari, le organizzazioni non governative». Anche le ONG? «Lo sa quanto dei fondi stanziati da queste organizzazioni finiscono realmente alle popolazione africane? Il 20%. Per non parlare dei meccanismi degli aiuti agroalimentari: i sussidi non vanno direttamente al paese ma alle multinazionali. Le quali con essi si pagano dei raccolti cresciuti in America e poi inviati via cargo in Africa. Ma non sarebbe più logico e infinitamente meno dispendioso sovvenzionare gli agricoltori africani perché crescano in loco frutta e cereali? E i meccanismi della politica agricola europea sono appena in parte diversi. Questo anziché benessere diffonde tensioni, rende i paesi vulnerabili sia sotto il profilo economico che della sicurezza: dall' inizio dell' anno ci sono stati già quattro colpi di stato, in Guinea, GuineaBissau, Mauritania e Madagascar». Insomma, quali suggerimenti darebbe a chi vuole genuinamente aiutare, non sussidiare, l' Africa? «C' è bisogno di investimenti veri, che alimentino attività produttive in loco e correnti di scambio paritarie. È quello che ha cominciato a fare la Cina, probabilmente perché avulsa da qualsiasi passato coloniale. Ci sono per esempio già quindici Borse valori in Africa, e lì dovrebbe intervenire l' occidente, nell' incentivare la nascita di nuovi mercati, non solo delle azioni ma delle obbligazioni. Poi andrebbero studiate e delle lineeguida per rendere attrattivi agli investimenti produttivi in queste terre, e se del caso finanziarli con tecniche di microfinance tipo quella della Gremeen Bank del Bangladesh. Oggi nella media dei paesi per intraprendere un' attività ci vogliono due anni e decine di permessi. In America, i giorni sono 40. Ecco, qui e in tanti altri casi si deve lavorare insieme. Altro che aiuti a pioggia». Dambisa Moyo, economista formatasi ad Harvard e Oxford, vive fra Londra, dove ha lavorato per otto anni fino allo scorso autunno nel dipartimento debt capital markets della Goldman Sachs, e New York dove fa parte del consiglio della Lundin for Africa Foundation, che sta investendo 100 milioni di dollari in iniziative di "microfinanza" in Africa, viste come primo passo per poi convogliare investimenti maggiori e di buon valore aggiunto. Fra i suoi studi, le ricerche sulle valute africane, e sui criteri per evitare un indebitamento troppo pesante in monete occidentali che espone questi paesi alle turbolenze dei mercati valutari oltre a favorire l' inflazione interna.

di EUGENIO OCCORSIO, «la Repubblica Affari&Finanza» 18 maggio 2009

Summit privato Berlusconi - Putin per parlare di energia

La festa, che durerà tre giorni, trascorre nella favolosa residenza - le gambe delle sedie e i grifi sono d'oro -, sulla riva del lago Valdai, nei boschi a sud di San Pietroburgo. Nemmeno la visita reale della bella Rania di Giordania a Roma è riuscita a convincere Sivlio Berlusconi a cambiare il suo programma. Il primo ministro italiano è da martedì col suo omologo e amico Vladimir Putin in Russia.
Si tratta di una visita "segreta e privatissima", nella quale si berrà vodka e si parlerà di politica, affari e altre cose. In teoria, i due capi di governo si incontrano nella residenza sul lago Valdai per festeggiare i 57 anni del primo ministro russo (anche se li ha compiuti il 7 ottobre). M il tema centrale dell'incontro è l'energia, e più in cocnreto il gasdotto South Sream, la "joint venture" costituita dall'azienda petrolifera russa Gazprom e dall'italiana Eni. Un'alleanza che irrita gli stati uniti e preoccupa Bruxelles.
Ieri l'opposizione al governo Berlusconi ha qualificato la visita come " indegna di un paese democratico". "In che paese del mondo- si chiede Francesco Rutelli - può succedere che un primo ministro intraprenda un viaggio segreto per vedere il leader di uno dei paesi più importanti?". L'ex comunista Massimo D'Alema aggiunge ironico: "Berlusconi viaggia in Russia più dei vecchi vertici del PCI".
La certezza è che l'amicizia fra Putin e Berlusconi è solida. I rappresentanti dei due paesi Europei dove le mafie sono più potenti pattuirono nel 2003; durante una visita di Putin a villa Certosa, che l'Eni si sarebbe associata a Gazprom per sviluppare il progetto South Stream, un nuovo gasdotto che arriverà alla Bulgaria dal mar Nero russo.
Insieme a Veronica Lario, fra spaghetti e canzoni del celebre Mariano Apicella, Putin e Berlusconi si accordarono nel prolungare dal 2017 al 2017 la compravendita di gas (3000 milioni di metri cubi di metano) e decisero che questo sarebbe arrivato in Italia tramite una terza impresa.
La soluzione la diede un vecchio amico di Berlusconi, Bruno Mentasti Granelli, ex socio in Tele+ e capo presidente dell'acqua minerale San Pellegrino. Dopo aver venduto la compagnia dell'acqua Mentasti creò la società Central Energy Italia e diventò l'uomo di fiducia di Berlusconi e di Gazprom. Come ha pubblicato Il Sole 24 Ore, Central Energy è in realtà controllata "da soggetti russi, di cui molti legati a Gazprom".
South Stream si dividerà in due rami: uno arriverà a Brindisi (Puglia) attraverso la Grecia e il canale di Otranto, con una deviazione verso l'Albania; l'altro attraverserà la Macedonia, la Serbia e l'Ungheria e arriverà fino a Vienna. Lasciano fuori la Romania, che ora cerca disperatamente di unirsi al progetto.
Le paure degli Stati Uniti riguardo South Stream sono enormi. Nella sua prima intervista convessa a un media italiano, il nuovo ambasciatore statunitense a Roma, David Thorne, mostrò la sua preoccupazione per "l'eccessiva dipendenza energetica" italiana.

La stessa Gazprom ha calcolato che quando i due gasdotti saranno in funzione, la dipendenza energetica europea dalla Russia supererà il 33%.
L'esperto dell'università di Harvard Marshall Goldman ha avvertito che "tutti gli stati europei che si approvigioneranno di gas dai gasdotti russi saranno alla mercè della volontà del Cremlino".
Washington teme poi che South Stream inizierà a strangolare il gasdotto Nabucco, che conta il suo appoggio al quali so sono aggiunti in giugno la Bulgaria, la Turchia, la Romania, l'Ungheria e l'Austria alla presenza del presidente della commissione europea, Josè Manuel Barroso. Nabucco trasporterebbe il gas Russo all'Europa attraverso l'Azerbaiyan.
Il terzo progetto in discordia è North Stream, che deve unire la Russia con la Germania attraverso il Baltico e che potrebbe cominciare a portare gas dalla fine del 2011, se collaborassero i paesi costieri. La Svezia per il momento ha negato di cedere le sue acque territoriali.
Come ha informato un portavoce del governo Russo, l'ex cancelliere Gerhard Schroeder, presidente di North Stream, non partecipa alla festa di Putin e Berlusconi, come ha pubblicato il giornale della famiglia del primo ministro italiano, il Giornale. Nel 2007, quando era capo dell'opposizione, Berlusconi visitò due volte la Residenza di Putin e lì trattò sia con Schroeder che con Chirac, ex presidente francese.
Nella politica di Berlusconi verso la Russia non pare contare molto l'opinione del suo ministro degli esteri, Franco Frattini. Il Financial Times ha ricordato che l'Italia conosceva la preoccupazione degli Stati Uniti per il progetto South Stream la settimana scorsa, durante la visita del ministro dello sviluppo economico, Claudio Scajola, a Washington. Frattini ha contestato dicendo che L'italia sta diversificando le sue importazioni, come mostra lafirma, lunedì a Milano, dell'accordo fra Eni e l'azienda petrolifera turca Calik per impiantare un altro gasdotto dal mar Nero Turco alla costa mediterranea. Igor Sechin, vicepremier russo, ha detto che la Russia è preparata a iniettare gas anche in questa tubazione.

La polemica dei servizi segreti

Il Corriere della Sera del 6 ottobre scorso raccontò che Berlusconi, "convinto che ci fosse un complotto internazionale contro di lui, vuole sapere chi dirige i suoi fili", e ha chiesto aiuto ai servizi segreti di una potenza amica ma non alleata.
la notizia precisava che, accusato per gli scandali e in aperta crisi istituzionale con gli altri poteri dello stato, Berlusconi fosse ricorso al so amico Vladimir Putin, ex membro del KGB.
Per 24 ore, Berlusconi non ha smentito questa informazione del principale quotidiano italiano, finchè alla fine si vide obbligato a farlo quando l'opposizione minacciò di interrogarlo in parlamento. Ma appena una settimana dopo, il periodico della famiglia Belusconi "il giornale" portò alla luce un vecchio dossier dei servizi segreti cecoslovacchi e accusò di spionaggio Corrado Augias, veterano comunista e oggi collaboratore de "LA Repubblica".
Come ha ricordato Giuseppe d?avanzo in questo giornale, alcuni uomini di fiducia di  Berlusconi rivelarono nelle ore precedenti la notizia del Corriere che il vero obiettivo di Berlusconi dell'aiuto di Putin fosse scoprire dato sopra il passato comunista del Capo di Stato, Giorgio Napolitano

Miguel Mora, da "El Pais" del 21 ottobre 2008
tradotto da Francesco Palmeri

sabato 17 ottobre 2009

La ripresa fiacca che indebolisce il biglietto verde

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti si trovarono nella fortunata situazione di poter dettare, dall’alto della loro indiscussa posizione di vincitori e di maggior potenza economica (avevano il 50% del pil mondiale e la gran parte delle riserve d’oro, oltre a enormi crediti nei confronti della Gran Bretagna e di altri paesi) le condizioni alle quali volevano vedere ricostruito il sistema economico internazionale. Tra le condizioni che imposero ai paesi vinti Germania, Italia e Giappone fu la riapertura dei commerci secondo modalità di multilateralismo, cambio unico e tassi di cambio abbastanza bassi da suscitare correnti di esportazioni da tali paesi. Ebbero poi l’intelligenza di aprire il loro mercato ai prodotti di quei paesi.
Data la loro enorme potenza economica, si temeva che avrebbero invaso con le loro merci i mercati europei. Ciò non accadde perché gli Stati Uniti avevano una enorme domanda interna da soddisfare, visto che i loro cittadini avevano accumulato grandissimi risparmi perché con la guerra era arrivata la piena occupazione mentre la produzione di guerra aveva ridotto la disponibilità di beni di consumo durevoli.
Con la fine della guerra i consumi esplosero e l’industria americana fu impegnata a produrre per il mercato interno. Quando i paesi sconfitti furono di nuovo in grado di esportare, il mercato americano era tanto desideroso di merci e tanto pieno di soldi, da accogliere anche i loro prodotti.
Ci si aspettava una fame mondiale di dollari. Ma questa durò poco, perché gli americani iniziarono alla fine degli anni quaranta il gigantesco programma degli aiuti Marshall e perché si diedero anche, dopo l’inizio della guerra fredda, a ricoprire l’intero mondo di basi militari, fornendo anche costosi aiuti militari agli alleati, a condizioni estremamente favorevoli. Così sfumò la fame di dollari e il dollaro iniziò invece una perdita di valore nei confronti delle altre principali monete, incrementata anche dal surplus commerciale con gli Usa che i tre paesi sconfitti cominciarono ad accumulare. Non volendo per alcun motivo rivalutare le proprie monete, alla fine degli anni cinquanta essi cominciarono ad accumulare dollari e oro, che gli Stati Uniti vendevano liberamente al tasso fisso di 35 dollari l’oncia.
Quando le riserve d’oro americane cominciarono a scemare vistosamente, fino a non coprire più la circolazione dei dollari di carta, si sparsero per il mondo voci sulla probabile svalutazione della moneta americana. Un bel cambiamento dalla situazione alla fine della guerra, solo quindici anni prima. Data da quegli anni anche il dibattito sulla necessità di rimpiazzare il dollaro con un paniere di monete, dibattito che precede la fluttuazione del dollaro dell’agosto 1971 e prosegue da allora fino ad oggi.
Oggi, tuttavia, i principali creditori degli Stati Uniti sono tutti nel Medio ed estremo oriente (se si eccettua la Russia, che però sta vendendo velocemente le riserve accumulate con i proventi del caropetrolio del 20072008). Non ci si deve perciò meravigliare se sono loro a tenere vivo il dibattito sul futuro del dollaro. In particolare, il massimo creditore degli Stati Uniti, la Cina, porta avanti una ragionevole campagna per ottenere maggiore potere nelle istituzioni internazionali. Vuole, ad esempio, che la sua quota al Fmi sia di molto aumentata e probabilmente vuole anche che a sostituire Strauss Khan alla testa di quell’organismo sia un cinese. La classe dirigente cinese, in aggiunta, non è affatto unita al suo interno relativamente alla strategia da seguire nei confronti del dollaro. Nessuno di loro vuole che esso si svaluti troppo rapidamente e profondamente. Ma ci sono dei "falchi" che preferirebbero usare la minaccia della vendita dei titoli di stato americani in mano alla Cina per ottenere svariati vantaggi su altri tavoli del continuo negoziato che la Cina conduce con gli Stati Uniti.
Così abbiamo visto il governatore della banca centrale cinese riproporre il piano dei diritti speciali di prelievo, in sostituzione del dollaro come base del sistema monetario internazionale, Così vediamo varie personalità cinesi farsi avanti, e commentare severamente il marasma finanziario americano. Ma, come tutti sanno, i cinesi non hanno fretta. Il mondo si è messo ad andare nel loro verso, e loro sanno di avere più carte in mano della gran parte degli altri giocatori sullo scacchiere mondiale.
Questo non è invece altrettanto vero quando si considera la posizione dei maggiori paesi produttori di petrolio del medio oriente. Essi non hanno la sensazione che le cose girino per un verso a loro favorevole. Innanzitutto perché le quotazioni del greggio, al momento, sono al disopra del livello di puro equilibrio commerciale, e sono state di nuovo sospinte, dai quaranta dollari dello scorso anno, verso i valori attuali da una ripresa della speculazione al rialzo. Se questa viene meno, si ritorna in basso, verso livelli assai meno remunerativi. Ma quel che più preoccupa i paesi del Golfo è la politica estera della amministrazione Obama. I sauditi, in particolare, temono che Obama si avvii a fare troppe concessioni all’Iran e che ciò rinforzi la fazione sciita nell’area. Ricordiamo che i territori sauditi dove si trovano i giacimenti sono abitati da popolazioni sciite e che l’attuale vice presidente degli USA, Joseph Biden, fu autore in anni passati di un piano di divisione dell’Arabia Saudita in tre parti, che avrebbe dato agli sciiti il controllo dei pozzi di petrolio.
Quel che ho detto a proposito del prezzo del greggio vale anche di più per quel che concerne i mercati delle materie prime. Lì le ragioni delle alte quotazioni sono venute meno, perché le condizioni attuali della offerta si accordano con prezzi assai più bassi. Come è noto, da quando è intervenuta la speculazione in massa su questi mercati, una previsione di svalutazione del dollaro comporta quasi automaticamente un forte effetto al rialzo su questi prezzi, perché le materie prime sono viste come beni rifugio, esattamente come l’oro, da comprare quando il dollaro tentenna.
Quindi, dato che a pensar male di solito si indovina, non è da escludere che tenti, paventando un crollo del dollaro, di creare negli speculatori che hanno posizioni sui mercati delle merci primarie un incentivo a rinnovare tali posizioni, invece di venderle, come detterebbero le previsioni a breve termine sul mercato di queste merci.
Sul ribasso del dollaro può avere influito anche la constatazione, che chiunque è in grado di fare, che il sistema finanziario americano, che doveva uscire dalla crisi profondamente riformato, prosegue invece senza che ai suoi principali difetti sia posto riparo. Le banche d’affari sono divenute banche commerciali, così possono ricevere denaro pubblico, ma avendolo ricevuto lo usano per gestire enormi posizioni speculative, a grande rischio, dalle quali hanno cominciato a trarre di nuovo grandissimi profitti.
I mercati dei prodotti derivati non sono stati riorganizzati come mercati centralizzati, ma persistono, per quel poco che si combina in questo settore, come somma di singole transazioni di prodotti "personalizzati", sui quali si ignora tutto eccetto che chi le gestisce guadagna moltissimo. Inoltre, esiste la certezza che il mercato dei mutui edilizi sopravvive in America solo perché è stato nazionalizzato, dato che i principali intermediari sono stati salvati e sono divenuti di proprietà del governo e della Federal Reserve. Se si cerca di riprivatizzarli, può di nuovo crollare tutto.
Questa serie di considerazioni può servire a spiegare la debolezza del dollaro. Essa è divenuta strutturale da quando l’economia americana ristagna per via della crisi, mentre quelle dei paesi emergenti (i BRIC) proseguono la loro corsa, Tra pochi anni negli Usa si produrrà si e no il 20% del pil mondiale e sarà ancor meno vero di oggi che una gran parte delle transazioni internazionali avrà come controparte gli Stati Uniti.
Poiché chi governa l’America sa che questo scenario è certo, più che probabile, e lo sa altrettanto bene chi governa la Cina, da entrambe le parti si cercherà nel futuro prossimo di effettuare un graduale passaggio di testimone in campo monetario internazionale. I circoli finanziari americani cercheranno di intermediare anche questo cambiamento. Ma esso non può consistere nell’acquisto, da parte cinese, delle banche d’affari e dei fondi di investimento americani, come avvenne nel caso della staffetta Inghilterra Stati Uniti. Consisterà invece, sempre che il diavolo non ci metta la coda causando qualche inattesa e rovinosa crisi, in un graduale ritorno ad una organizzazione pubblica della finanza internazionale, con la riforma del Fmi e la introduzione di una qualche forma di moneta mondiale, del tipo dei diritti speciali di prelievo, con i cinesi che pretendono dai loro partners commerciali che le transazioni con loro avvengano in questa moneta composita.
Nel breve termine, tuttavia, a andarci di mezzo, se il dollaro cede terreno, sarà l’Euro, l’unica altra moneta che non è tenuta a un livello considerato conveniente dalla banca centrale che la emette. La BCE non ha né riserve né il mandato politico per farlo. Così, cinesi, sauditi, speculatori in materie prime mandano giù il dollaro e a salire è solo il corso dell’Euro. Pessime notizie per gli industriali e i lavoratori tedeschi e italiani, che cercano di riprendersi dalla botta subita nel 2008\2009.

Di Marcello De Cecco, «la Repubblica Affari&Finanza», 12 ottobre 2009

Un miliardo senza cibo

Come in tutte le battaglie, ci sono bollettini che contano le vittime. Chi combatte la fame nel mondo ha adesso un numero che è diventato la bandiera di una sconfitta. Una cifra - 1 miliardo di persone malnutrite sulla Terra - che da sola sintetizza quanto poco siano serviti in questi anni appelli, mobilitazioni, vertici e proclami. Il conteggio dell’ultimo rapporto della Fao - 1,02 miliardi di "affamati" - evoca scenari di epoche passate ma è invece la fotografia dell’attuale aumento delle disuguaglianze e dell’inefficienza delle politiche di aiuto allo sviluppo. Mai nella storia dell’umanità la fame ha colpito una popolazione così numerosa ed estesa geograficamente, anche se oggi gli esperti ripetono che ci sarebbero abbastanza risorse e tecnologie per sfamare tutti gli abitanti del Pianeta.
Rispetto all’anno scorso ci sono oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini che devono accontentarsi di meno di 1.800 calorie al giorno, considerate la "frontiera della fame". Un sesto di tutta l’umanità si nutre con l’equivalente di due ciotole di cereali, mentre un altro miliardo di individui sono figli delle "fast food nations" e sovrappeso. La mancanza di cibo resta un flagello dei Paesi poveri, con il primato al continente asiatico (642 milioni di affamati, +10,5 per cento), all’Africa (307 milioni, +12,5) e all’America Latina (53 milioni, +12,8). Ma la novità è che la recessione economica ha provocato un aumento delle persone malnutrite persino nei Paesi ricchi. Anzi, l’incremento percentuale più alto (15,4) è stato proprio nelle "Primo mondo", dove si trovano oggi 15 milioni di persone che soffrono la fame. Nel 2000 c’erano 2 miliardi di affamati nelle metropoli: nel 2030 saranno il doppio. Il rapporto della Fao smentisce anche la teoria del premio Nobel indiano Amartya Sen, secondo il quale le democrazie non producono carestie perché consentono la libera espressione delle proteste sociali. La fame sembra ormai uno spettro con il quale le società più avanzate sono costrette a convivere.
Il 2009 segna dunque un punto di non ritorno. Jacques Diouf, il presidente della Fao, non ha difficoltà a individuare il colpevole. La recessione e la tempesta finanziaria che hanno impegnato i governi a mobilitare miliardi nel salvataggio dei sistemi bancari. «La stessa azione pubblica decisa», sottolinea Diouf, «servirebbe per combattere la fame». L’insicurezza alimentare - come viene definita da qualche anno la cronica mancanza di cibo - è aumentata ancora di più con la crisi globale. Molti Paesi poveri hanno subito cali generalizzati di esportazioni, investimenti stranieri, aiuti allo sviluppo e anche rimesse degli emigrati nei Paesi più ricchi. Nel 2007 le diciassette economie più importanti dell’America Latina avevano ricevuto dall’estero 184 miliardi di dollari in entrate finanziarie: ora siamo a 44 miliardi.
Per Jeffrey Sachs, economista che ha diretto il Millennium Project delle Nazioni Unite, l’emergenza alimentare ha quattro cause. «La prima è una produttività cronicamente bassa dei contadini nelle nazioni più povere, perché non possono permettersi l’acquisto di sementi e fertilizzanti, né l’accesso all’irrigazione. La seconda è la politica sbagliata del sostegno ai biocarburanti perseguita da Stati Uniti e Unione europea. La terza è il cambiamento climatico. La quarta è la crescita della domanda globale di alimenti, provocata dall’aumento dei redditi di alcune popolazioni come la Cina e l’India».
Il paradosso è che fino agli anni Novanta erano state segnate importanti vittorie nella battaglia contro la fame. Dal 1969, quando la Fao cominciò a raccogliere dati, c’erano 878 milioni di persone malnutrite. Da allora, la curva statistica è lentamente scesa fino al 1995, anno in cui è cominciata la risalita, e poi l’impennata degli ultimi cinque anni. «In quel momento si è segnata una svolta», ricorda Marco De Ponte, segretario generale dell’ong ActionAid. «Il cibo è ufficialmente diventato una merce come le altre, dunque sottoposto alle fluttuazioni e alle incertezze del mercato». Nel 1996 c’è anche il primo World Food Summit a Roma, con l’impegno solenne dei capi di Stato e di governo a dimezzare la fame nel mondo, fino a 425 milioni di persone entro il 2015, promessa ribadita nel Millennium Summit del 2000 e in tutti i vertici successivi. Peccato che nel frattempo quell’obiettivo si sia allontanato invece di avvicinarsi.
«Credo viceversa che in questi anni abbiamo visto degli esempi positivi», dice ancora De Ponte, «per esempio la Cina e il Brasile». Il governo di Pechino è riuscito a ridurre il numero di persone malnutrite con una migliore distribuzione delle terre agricole, mentre il presidente brasiliano Lula ha stanziato fondi per le sue banche alimentari e il programma "Fome Zero". «È la dimostrazione che si può combattere, e vincere», conclude il responsabile di Action Aid che ieri ha presentato una sorta di controrapporto sulla fame nel mondo, dando le pagelle agli impegni dei governi. L’Italia figura al quattordicesimo posto. «Durante il vertice del G8 all’Aquila, Silvio Berlusconi aveva promesso 400 milioni per la lotta alla fame, purtroppo questo impegno non è stato inserito nella Finanziaria», racconta Marta Guglielmetti, rappresentante per la campagna Onu sugli Obiettivi del Millennio. «Anche sull’aiuto allo sviluppo restiamo fermi allo 0,10 per cento del Pil, in leggero calo rispetto al passato e ben al di sotto dell’obiettivo fissato allo 0,51 nel 2010».
L’insicurezza alimentare rischia di trasformarsi in insicurezza tout court. «In futuro fame e carestie provocheranno nuovi conflitti», ha scritto lo studioso Joachim von Braun in un rapporto dell’International Food Policy Research Institute di Washington. Nel 1960 ogni essere umano aveva a disposizione 4.300 metri quadri del pianeta per il suo sostentamento alimentare. Oggi siamo scesi a 2.200 e nel 2030 il nostro "spazio vitale" sarà di soli 1.800 mq. Secondo il think tank americano, per garantire la pace la produzione alimentare dovrebbe raddoppiare entro il 2050, quando saremo 9 miliardi di persone sulla Terra.
Un altro fattore che non induce all’ottimismo è l’inflazione delle derrate alimentari. Nelle aree più misere del pianeta, per comprare il cibo essenziale a una famiglia di cinque persone oggi occorre lavorare in media dieci ore in più a settimana. Dopo la fiammata del 2007 e del 2008 si pensava che i prezzi sarebbero di nuovo scesi. Non è stato così. Neanche la recessione ha calmierato i prezzi. Tra dicembre e giugno l’indice sul prezzo del cibo stilato dall’Economist è risalito di un terzo. E non per mancanza di offerta. I raccolti di cereali quest’anno dovrebbero essere abbondanti: 2,2 miliardi di tonnellate, dopo il record di 2,3 miliardi del 2008. Ma la domanda è in costante aumento e molti esperti pensano che il costo delle derrate alimentari non tornerà più ai livelli del 2006. Gli alti prezzi agricoli non hanno neanche sostenuto i milioni di contadini poveri, incentivando l’aumento della produzione. Il raccolto di cereali in Africa resta in media di circa una tonnellata per ettaro, rispetto a tre-quattro tonnellate per ettaro in Europa.
«Serve un intervento di emergenza, con buoni alimentari, aiuti e reti di sicurezza, e a medio termine un programma di sostegno all’agricoltura contadina», ha detto il presidente della Fao rivolgendosi ai capi di Stato e di governo che si troveranno a Roma dal 16 al 18 novembre per un nuovo World Food Summit. Sarà bene ricordare che le battaglie non si vincono solo con le parole.

Di Anais Ginori, «la Repubblica», 15 ottobre 2009

Polo Nord, la fine è più vicina: "Tra 20 anni sparito il ghiaccio"

Dopo 73 giorni di lavoro tra i ghiacci del Polo Nord, durante i quali sono stati percorsi a piedi 435 km e raccolti 6.000 dati, le proiezioni sul futuro della calotta polare sono alquanto allarmanti: entro 20 anni, durante l'estate, sarà totalmente libera di ghiacci. Ma già tra una decina di anni i ghiacci estivi saranno notevolmente ridotti. A tali conclusioni sono giunti i ricercatori del Catlin Arctic Survey, che in marzo hanno intrapreso l'avventura scientifica al Polo Nord.
"Lo spessore medio dei ghiacci che non hanno subito alcuna compressione è di 1,8 m, che corrisponde a quella che si forma durante una sola stagione invernale", ha spiegato Peter Wadhams, dell'Università di Cambridge e responsabile scientifico della spedizione. Secondo il ricercatore un ghiaccio di tale spessore, che sta a significare che si è formato nell'inverno precedente, è destinato a scomparire con il sopraggiungere dell'estate. Ecco perché una grande estensione di ghiaccio di "primo inverno" è un cattivo indice per la sopravvivenza della calotta polare. Solo dove i ghiacci sono compressi raggiungono uno spessore medio di 4,8 m, e quindi possono sopravvivere anche alle temperature estive, ma tale situazione la si trova sempre più raramente.
Se da un lato la perdita dei ghiacci polari incrementerà il traffico navale a nord del mondo, facendo risparmiare tempo e carburante alle navi-container, e scatenerà la ricerca petrolifera e di altri minerali preziosi, dall'altro accelererà il riscaldamento globale, poiché il mare trattiene molta più energia solare rispetto alla calotta ghiacciata. Ciò farà cambiare la circolazione oceanica e atmosferica con effetti sul clima globale ancora poco noti.
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Dati che sostengono il quadro avanzato dal team di Wadhams, giungono dal NSIDC (National Snow and Ice Data Center) dell'Università del Colorado (Usa). Alla fine di settembre la riduzione dei ghiacci al Polo Nord, misurata attraverso i satelliti, segnava il terzo posto nella classifica degli anni peggiori per riduzione a partire dal 1979, anno d'inizio dei rilievi. Al primo posto c'è il 2007 e al secondo il 2008. A fine settembre di quest'anno, l'estensione dei ghiacci era di 5,36 milioni di km quadrati, circa 1,06 milioni in più rispetto al 2007, ma ben 1,68 km quadrati in meno al periodo 1979-2000, periodo preso a riferimento.
Intanto a poche settimane dalla Conferenza Internazionale sui Mutamenti Climatici che le Nazioni Unite terranno a Cophenagen, l'Unep (Enviroment Programme degli Stati Uniti) ha redatto uno studio sul clima che tiene conto di quanto avvenuto dal 2007 ad oggi. La realtà è peggiore rispetto alle previsioni di due anni fa e riguarda non solo il ritiro dei ghiacci, ma anche l'aumento e l'acidificazione dei mari (superiore al previsto), e la crescita continua delle emissioni di anidride carbonica.
Di Luigi Bignami, «la Repubblica», 16 ottobre 2009
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domenica 11 ottobre 2009

Rassegna stampa: La rivincita dell' Unità d' Italia


SONO i Garanti dell' Italia unita, al loro compito cercano di rimanere fedeli. Così il nuovo documento proposto da un gruppo di studiosi raccolti intorno al presidente Carlo Azeglio Ciampi ha proprio il sapore di una correzione rispetto alle linee-guida presentate un mese fa dal ministro Bondi. Cominceranno il 17 marzo del 2011 le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell' Unità d' Italia. La data di avvio è stata proposta dal Comitato dei Garanti, che ieri ha reso pubblico il suo documento con i "suggerimenti" per il ministro Bondi. La rilevanza politica di questo nuovo atto consiste nel contrapporre alla "disunità" enfatizzata nelle linee guida del ministero, influenzato dai mal di pancia di Bossi (i localismi, la valorizzazione dei dialetti, le ombre del processo risorgimentale), una lettura che invece insiste sul carattere unitario della costruzione nazionale. E questo carattere unitario scaturisce da una tradizione storica che dal Risorgimento arriva alla Carta Costituzionale passando attraverso la stagione fondante della Resistenza. Quella che è emersa nei giorni scorsi dal Comitato dei Garanti - presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e composto tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky, Walter Barberis, Roberto Pertici, Simona Colarizi, Elena Aga Rossi, Ernesto Galli della Loggia - è una lettura della storia nazionale molto distante dagli umori della Lega o dalle interpretazioni neoguelfe cui pure è sensibile il presidente del Consiglio. Ora spetta al ministro Bondi tradurre in mostre, manifestazioni nelle scuole, musei virtualie fiction televisive questa lettura dell' identità nazionale. Ci saranno i soldi? E, soprattutto, ci sarà la volontà politica di valorizzare un' interpretazione della storia italiana così estranea alla visione dei governanti? Vediamolo in dettaglio questo bilanciamento. Intanto nel cappello del documento si specifica che queste celebrazioni devono trasmettere essenzialmente un «significato unitario», ossia il «patrimonio di identità e di coesione nazionale che gli italiani hanno maturato nella loro storia». Questo non significa trascurare «le difficoltà del percorso di formazione nazionale» o «problemi ancora irrisolti come il divario tra Nord e Sud» né significa appiattire «gli elementi di pluralità e diversità» molto esaltati dal ministro Bondi, ma tutti questi aspetti devono essere trattati entro una cornice solidamente unitaria, cementata da un' identità nazionale «che ha le sue radici nella formazione della lingua italiana», scrive Ciampi, «e che negli ultimi due secoli s' è sviluppata in una continuità di ideali e valori dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione Repubblicana». Un capitolo centrale del documento investe le "istituzioni", questione ignorata nelle precedenti celebrazioni dell' Unità d' Italia. «L' unità di un popolo», vi si legge, «si misura sulla tenuta delle sue istituzioni, sulla capacità di fare di tante terre, distintee anche lontane, un territorio integrato». Parlare dell' unità d' Italia equivale dunque a parlare delle sue istituzioni unitarie, della loro attuale tenuta. Centocinquant' anni di trasformazioni profonde: «dalla monarchia alla repubblica; dall' oligarchia liberale alla democrazia aperta a tutte le classi; dallo Stato centralizzato alle autonomie territoriali, al federalismo; dalla emarginazione delle donne dalla vita pubblica e sociale alla loro partecipazione; dai diritti di libertà ai diritti sociali, la salute, il lavoro, l' istruzione; dallo Statoguardiano allo Stato del benessere; dalla separazione società-Stato alla "nazionalizzazione delle masse", allo Stato pluralista; dallo Stato confessionale alla laicità dello Stato». Il "documento riassuntivo" di questo percorso è la Costituzione, che dovrebbe assurgere a simbolo delle celebrazioni unitarie. Da queste considerazioni discende un' altra integrazione suggerita a Bondi dai Garanti: le manifestazioni non dovrebbero essere circoscritte al solo Risorgimento. La ricorrenza del 2011 investe la «vicenda italiana in tutta la sua unitarietà e interezza»: non solo dunque la lotta per l' indipendenza, ma anche il successivo consolidarsi dell' identità italiana lungo un secolo e mezzo, con speciale attenzione «al tratto del percorso unitario compreso negli ultimi sessant' anni». In questo quadro di riferimento - che valorizza anche la crescita di benessere legato al lavoro, il ruolo delle Forze Armate, la storia di genere - si potranno pure affrontare i singoli episodi, personaggi e luoghi geografici indicati dalla precedente bozza di Bondi (viaggi nella storia locale italiana, ritratti di statisti e artisti eminenti, luoghi delle memoria, targhe e monumenti riscoperti e puliti), elementi che tuttavia, sprovvisti della cornice unitaria, non sono più funzionali allo spirito delle celebrazioni. Conseguente a questa impostazione è anche la riflessione sui dialetti. «La valorizzazione delle lingue particolari», si legge nel documento, «è un fatto positivo se serve alla pluralità nell' unità; non ha invece alcuna relazione con le celebrazioni dell' Unità d' Italia, è anzi controproducente, se si riduce alla pura e semplice coltivazione di culture locali chiuse in sé, a vocazione folcloristica». Bondi aveva proposto il «censimento dei dizionari dialettali». Una "priorità dubbia", liquida il Comitato. Al momento Bossiè servito. La palla ora passa al ministero. - SIMONETTA FIORI, «la Repubblica», 7 ottobre 2009

Rassegna stampa: Quando i salari sono senza dignità

LA CONFEDERAZIONE sindacale internazionale, che conta nel mondo 150 milioni di aderenti (compresi gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil), ha dichiarato che oggi è la giornata mondiale del Lavoro Dignitoso. Sarà celebrata con numerose iniziative in un centinaio di paesi. Il nome che è stato dato alla giornata non è un' etichetta di maniera. Un lavoro merita di venir definito dignitoso quando assicura a chi lo presta alcune specifiche sicurezze, da un salario il cui importo sia sufficiente per un' esistenza civile alle tutele sindacali, dalla possibilità di sviluppo professionale ad una pensione accettabile. La crisi in atto ha minato nel nostro come in altri paesi sviluppati anzitutto la sicurezza del salario (nel doppio senso di stabilità e importo) per milioni di persone che ne godevano, mentre nei paesi in via di sviluppo masse di lavoratori la vedono sempre più lontana. Tra la sicurezza del salario che viene meno per chi l' aveva, e l' insicurezza di coloro che non l' hanno mai conosciuta, esiste una relazione diretta che non è dovuta alla crisi. Quest' ultima l' ha soltanto messa in maggior evidenza. I nostri salari sono bassi perché nei maggiori paesi emergenti, in primo piano Cina e India, sono da cinque a dieci volte più bassi. Questo squilibrio produce da vari lustri una serie di conseguenze negative per i lavoratori. Le imprese che producono merci e servizi trasferiscono quote crescenti della produzione, o dei posti di lavoro, o di tutt' e due, nei paesi dove i salari sono più bassi. A volte minacciano soltanto di farlo, ma il risultato è analogo: una pressione crescente sui salari e sulle condizioni di lavoro nei nostri paesi al fine di rendere gli uni e le altre più "competitivi". Al tempo stesso fiumi di merci a basso costo, prodotti per circa due terzi da imprese Ue e Usa delocalizzate, ovvero da decine di migliaia di sussidiarie da loro controllate nei paesi emergenti, inondano i nostri mercati e ne cacciano le produzioni locali. Il consumatore che alberga in ciascuno di noiè ben contento di poter acquistare una camicia a 10 euro, un giocattolo per 5 e un elettrodomestico per meno di 50; mentre nel lavoratore che sta in noi, o nella nostra famiglia, o nel vicinato, cresce la preoccupazione per il salario che rischia di scomparire. Intanto che la persona morale, la quale sta pure in noi, da parte sua sonnecchia, poiché quei prezzi così ridotti sono resi possibili da paghe che nei paesi asiatici sono inferiori a un euro l' ora, e da condizioni di lavoro sovente indecenti. In questo conflitto creato di proposito dalle corporation occidentali tra i nostri salari e quelli asiatici è insita anche una notevole insensatezza economica, che la crisi attuale ha posto in severa luce. Essa si compendia nel fatto che i lavoratori a basso salario dei paesi sviluppati consumano meno, pagano meno tasse, versano contributi minori per la previdenza e la sanità, siano pubblici o privati, fanno studiare i figli per meno anni. Ciò significa che i bassi salari sono un danno sia per loro, sia per l' intera economia. In Usa, una delle cause principali della crisi partita dai mutui facili sta in un solo dato: il 90% dei lavoratori americani aveva nel 2006 un reddito reale inferiore a quello del 1973, meno di 30.000 dollari in luogo di 31.000. E si veda quel che accade in Italia: comuni in difficoltà per fornire servizi essenziali, mentre mancano 800.000 posti negli asili e nelle scuole materne; ferrovie al limite della decenza per la maggior parte degli utenti; scuole in cui sono i genitori a portare i gessetti; dipartimenti scientifici che frugano nei bilanci non per acquistare l' ultimo supercomputer ma la carta per la stampante, e non da ultimo migliaia di chilometri quadrati di terreni di montagna e collina pronti a crollare e uccidere. Per nessuna di queste urgenze, affermano le autorità, ci sono abbastanza soldi. Ma qualcosa in più sicuramente ci sarebbe se i salari reali non fossero quasi fermi da oltre dieci anni, grazie alle strettoie della cosiddetta competitività. Nei paesi asiatici, ovviamente, i lavoratori stanno assai peggio, perché ai salari cinque o dieci volte più bassi si accompagna la scomparsa o la drastica riduzione della protezione sociale. Assistenza sanitaria, pensioni, istruzione: se uno vuole qualcosa più del minimo, che spesso è prossimo al niente, deve pagarselo. Ma non guadagnano abbastanza, e l' intera domanda interna ristagna. Pertanto, lasciando da parte i richiami alla morale, ai quali il comportamento economico razionale è per definizione scarsamente sensibile, un modo efficace per difendere il salario presente e futuro dei lavoratori italiani ed europei consisterebbe nell' aumentare il salario dei lavoratori asiatici. Da questo punto di vista, tra le iniziative collegate alla giornata mondiale del Lavoro Dignitoso merita attenzione la campagna volta a offrire un salario minimo vivibile ai lavoratori asiatici, lanciata dai sindacati internazionali dell' abbigliamento. Il 60% dei capi di abbigliamento venduti nel mondo viene prodotto da 100 milioni di lavoratori residenti in sette paesi asiatici, di cui i più popolosi sono Cina, India e Indonesia; i più poveri, Bangladesh e Cambogia. I sindacati hanno individuato in 475 dollari mensili (poco più di 300 euro), tenuto conto del potere di acquisto interno di ciascun paese, l' importo del salario minimo vivibile o dignitoso per mantenere una famiglia di quattro persone. Tale somma rappresenta solo il doppio dell' attuale salario minimo in India, e poco più di quello cinese, ma sarebbe quattro volte superiore a quello attuale della Cambogia, e sette volte a quello del Bangladesh. I sindacati dell' abbigliamento non si fanno quindi molte illusioni circa la possibilità di portare rapidamente il salario minimo di quei paesi al livello indicato. Ma confidano che sia nei paesi in via di sviluppo, sia in paesi come il nostro, si facciano strada politiche industriali, e politiche del mercato del lavoro, fondate sulla consapevolezza che il livello dei nostri salari e la qualità della nostra economia dipende non poco dall' aumento dei salari dei lavoratori asiatici.A cominciare da quelli occupati direttamente o indirettamente da corporation Usa e Ue. - LUCIANO GALLINO, «la Repubblica» 7 ottobre 2009

Rassegna stampa: Nella frontiera degli italiani indigenti per mangiare solo 50 euro al mese

Mangiano con cinquanta euro. Al mese. Tre milioni gli italiani oggi vivono così e la povertà, ai tempi della crisi, si declina sempre più al femminile visto che tra loro le donne sono il 75%. Madri di famiglia o pensionate, single, operaie o precarie costrette ad arrangiarsi tra inventiva e rinuncia perché soldi non ce ne sono più già alla terza settimana. Donne che come sogno nel cassetto ad un viaggio esotico preferiscono più concretamente una cura dal dentista o cibo di miglior qualità. Storie di un' Italia nascosta e reale. Storie di gente che anche se lavora riesce a tirare avanti solo grazie ai pacchi viveri, alle ottomila associazioni che distribuiscono le 60mila tonnellate che la rete del Banco Alimentare raccoglie ogni anno. Padri separati, operai e pensionati aiutati dal Banco (che raggiunge un milione e mezzo di persone) hanno svelato sogni e debiti, studi passati e lavoro presente o perduto, in una ricerca della fondazione per la Sussidiarietà. Per dare un' immagine reale di chi vive sotto la soglia di povertà alimentare, stabilita in 222 euro a coppia anche se la media del paese è di 155 per tre persone. Un lavoro dettagliato che verrà presentato giovedì in Campidoglio alla presenza del ministro alle Attività produttive Scajola, ministro dell' Agricoltura Zaia, del presidente del Senato Schifani e del cardinal Bagnascoe del banchiere Passera. «Un' indagine dalla quale si capisce che il povero non è, come vorrebbe il luogo comune, chi non ha voglia di lavorare ma gente soprattutto sola, entrata in crisi economica perché ha perso il posto o una persona cara, ha subito un lutto o una separazione. Senza reti familiari e sociali si finisce su un crinale dal quale è difficile riprendersi» dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione e tra gli ideatori della Compagnia delle Opere. Che questa ricerca mira a creare un Osservatorio permanente sulla povertà che «fornisca alle istituzioni e alla politica strumenti per una azione animata da un ideale di giustizia e non da un assistenzialismo sterile. Perché tutti all' improvviso possiamo diventare poveri in una società dove se si perde il lavoro a 50 anni è difficile riprendersi senza aiuti, dove la sanità non è pensata per i malati cronici o le madri sole. Dove chi il lavoro non ce l' ha o l' ha perso tutele non ne ha». Non è comunque la perdita del posto (59%) l' unica causa della «caduta in stato di povertà». Lo raccontano gli intervistati: nel 30% dei casi dietro l' inizio della crisi economica c' è la morte di un familiare, un divorzio. O una separazione, come testimoniano molti padri che con un solo stipendio, pagato il mantenimento all' ex compagna e ai figli, non riesconoa trovare un alloggio decente dove vivere, finendo così nella precarietà. Come tante donne lasciate sole coi figli e che faticano a trovare lavoro avendo i piccoli a casa. E così se il 36% di chi viene aiutato dalla rete del Banco è sposato, il 20% è composto da vedovi e il 26% divorziati o separati. Tanti lavorano, i disoccupati sono solo il 37% tra gli italiani, 11% le casalinghe, 16,7 i pensionati. Con molta fatica sulle spalle e pochi anni sui banchi visto che il 7% non ha alcun titolo di studio, il 33 ha al massimo finito le elementari. Operai nel 77,6 per cento dei casi e nell' 8,6 impiegati. Costretti a faticare per pagare gli affitti perché solo il 34,7 vive in casa di proprietà. Nelle interviste raccontano una lotta continua e quotidiana tra debitie insolvenze: una persona su quattro è in arretrato con le bollette, una su cinque con l' affitto, il 5 per cento ha problemi a pagare il mutuo e altrettanti a fare la spesa. Tanto che in una settimana il 50% non mangia mai pesce e la dieta quotidiana è composta soprattutto da pane, pasta. Forse per questo alla domanda: «Cosa faresti se avessi mille euro al mese?», il sogno confessatoè semplicemente avere in tavola cibo di miglior qualitào una cura dal dentista (per il 40%). Un viaggio, arriva solo al terzo posto. - CATERINA PASOLINI, «la Repubblica» 6 ottobre 2009