martedì 12 gennaio 2010

La crisi economica e l'importanza degli studi umanistici

Sul finire del 2008, in visita alla London School of Economics, la Regina Elisabetta si rivolse ai più grandi economisti del Regno Unito chiedendo loro come mai soltanto pochi esperti avessero previsto la disastrosa crisi finanziaria che con violenza si è abbattuta sull’economia mondiale da due anni e mezzo a questa parte. Soltanto dieci autorevoli studiosi di economia politica inglesi, dopo cinquanta giorni, riuscirono a trovare una risposta per la Regina scrivendo che una delle ragioni principali dell'incapacità degli economisti della nostra epoca di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è da ricercare in una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: la scienza economica, relegando ad un ruolo marginale la storia economica, la filosofia e la psicologia e basandosi unicamente sul dogma dell’infallibilità del mercato sembra essere diventata, dunque, una branca delle matematiche applicate. Questi “scolastici del libero mercato”, acerrimi nemici dello Stato e della nazionalizzazione delle industrie, hanno ignorato per anni gli innumerevoli avvertimenti, provenienti dalle poche voci fuori dal coro, sulla pericolosa instabilità del sistema finanziario globale. Sostiene giustamente l’economista Lunghini («il manifesto», 18 novembre 2009) che «c'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza – l'orgogliosa consapevolezza – della dimensione politica dell'analisi economica». Ma tutto ciò è venuto colpevolmente a mancare negli ultimi decenni dove, invece, hanno prevalso analisi economiche basate su modelli matematici che, com’è purtroppo sotto gli occhi di tutti, si sono dimostrati del tutto incapaci di prevedere l’imminente disastro (la Lehman Brothers, per esempio, è fallita nonostante il suo nutrito staff di esperti economisti). Non c’è poi tanto da stupirsi, come sostiene l’economista Katia Caldari («il manifesto», 22 novembre 2009), se soltanto si pensa che già l'economista inglese Alfred Marshall sosteneva che la scienza economica riguarda l'uomo «di carne e di sangue», il quale non può assolutamente «scegliere e agire solo sulla base del calcolo dell'interesse personale; l'economia quindi non è riducibile a puro calcolo matematico e non è – né può essere – una scienza esatta, al pari della fisica. È una scienza inesatta che ha che fare con una materia molto complessa e aleatoria. Affidare la comprensione o previsione del futuro a un modello basato su una lunga lista di assunzioni irrealistiche non può che portare a delusioni».
Una deriva tecnicista, quella degli studi economici, che significa, come sostiene l’economista Becattini («il manifesto», 25 novembre 2009), una rinuncia o, se si vuole, una vera e propria negazione del compito principale dell'economista, che è quello «di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui “l'economia di mercato”, come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il “grande spreco” del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo “civilizzato”, questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato».
Il 4 gennaio 2010 è apparsa sul «Financial Times» una nuova ed aspra denuncia del fallimento formativo delle cosiddette business school, incapaci di prevedere la portata catastrofica della grande depressione economica in cui è precipitata l’economia mondiale. Il problema cruciale che la crisi finanziaria ha disvelato risiede, secondo l'articolista, nell'inadeguata formazione offerta dalle business school. Istituzioni che dovrebbero formare dirigenti di imprese e di istituzioni finanziarie ed economiche e che, per questo motivo, non dovrebbero soltanto curare il profilo tecnico e professionale dei propri allievi, ma anche e soprattutto ispirare alti valori etici a coloro che diventeranno una parte importante della futura classe dirigente. Sembra proprio che queste grandi scuole abbiano miseramente fallito poiché l’attuale classe dirigente, si afferma con decisione nell’articolo, non si cura affatto di perseguire, in maniera non egoistica ma disinteressata, l’interesse generale come invece dovrebbe se avesse piena coscienza di decidere la sorte, in alcuni casi, di miliardi di persone.
A questo proposito è giusto riportare la riflessione del prof. Giulio Sapelli che, in un articolo apparso sul «Corriere Economia» dell’11 gennaio 2010, ricorda come un testo classico sull'educazione della classe dirigente degli affari (dei sociologi Seymour Martin Lipset e di David Riesman, Education and Politics at Harvard: Two Essays Prepared for the Carnegie Commission on higher Education, 1975) mettesse in luce l’incapacità sostanziale dell’Università di Harvard di formare classi dirigenti poiché si era troppo insistito sull'istruzione specialistica e tecnica e non sull’educazione, sulla formazione del carattere, sulla formazione umanistica. Ma questo studio è stato coerentemente e pervicacemente rimosso dalle classi dirigenti americane tutte intente, invece, a lanciare l’intero Occidente verso una devastante euforia dei consumi e del benessere materiale, del progresso tecnologico e della riduzione del costo del lavoro, relegando la filosofia e la formazione umanistica, che pure in anni migliori avevano ispirato grandi imprese capitalistiche alla responsabilità sociale e alla produzione di beni e servizi, all’ultimo posto tra le discipline di studio, trasformando, in questo modo, irrimediabilmente il già troppo ristretto ceto finanziario (si tratta, come ha illustrato Luciano Gallino, di 120 mila persone al massimo, «una cifra che corrisponde sì e no alla popolazione d'un quartiere in una città di medie dimensioni» [Con i soldi degli altri p. 47]) che domina il mondo e ne decide le sorti in una cricca di briganti che, senza alcun rispetto per la dignità umana e senza alcuna cultura, sono pronti a tutto – delocalizzazioni delle imprese e licenziamenti in massa, improprie diversificazioni della produzione, costruzione di opere pubbliche dal catastrofico impatto ambientale, smaltimento criminale di rifiuti tossici, assalto ai servizi pubblici come l’acqua per imporre tasse esose ed insostenibili – pur di rispondere alle logiche del profitto finanziario e borsistico. L'egemonia culturale di questo pensiero, tutto basato su logiche di calcolo e di profitto ed indifferente al pubblico interesse e ai modi di realizzarlo, ha generato e continua a generare un particolare e sempre più diffuso tipo umano plasmato e atrofizzato nella personalità – impedita della sua possibilità di espansione e nella creatività – dal lavoro mercificato, dal piatto dominio della tecnologia sulle intelligenze e dall'«introiezione dell'obbligo di consumare» (L. Gallino, Con i soldi degli altri).
Qual è, poi, l’effetto materiale dalle più gravi conseguenze che questa idea di economia e di società ha causato?
Se da una parte è in corso una graduale scomparsa dello spirito pubblico ed una progressiva disintegrazione dello Stato e della funzione pubblica, delle istituzioni e delle amministrazioni, che rimanda a tempi oscuri della storia, dall’altra questo processo risulta dirompente nel mondo delle imprese e costituisce una delle ragioni principali dell’attuale crisi economica e delle sue conseguenze. Negli ultimi anni, l’impresa ha perso la funzione sociale legata alla produzione di beni e servizi concentrando la sua attività sull’ottimizzazione dei profitti nel più breve tempo possibile, al fine di massimizzare il guadagno dell’azionista e senza accollarsi alcun rischio d’impresa, come prevede il codice civile. Il ruolo dell’impresa risulta, dunque, distorto; essa viene finanziarizzata, socialmente deresponsabilizzata e funzionalizzata al profitto degli azionisti (a questo proposito sono importanti gli studi di L. Gallino: La scomparsa dell’Italia industriale, L’impresa irresponsabile, Con i soldi degli altri). Data questa impostazione, l’impresa non risulta più un organismo sociale con lo scopo di creare valore reale per un paese ma soltanto uno strumento di profitto – guidato dagli investitori istituzionali o operatori di borsa senza alcuno scrupolo né tantomeno alcuna responsabilità sociale che, invece, almeno in teoria hanno i manager super pagati – in cui tutte le parti possono essere sostituite in qualsiasi momento: dagli operai alla stessa produzione o alla localizzazione dell’impresa. Le ragioni di queste scelte sono sempre unicamente legate a motivi finanziari e non rispondono ad una coerenza logica o ad una precisa idea di impresa e di programmazione della produzione industriale. Queste arbitrarie scelte aziendali possono variare anche in modo repentino senza tener conto delle conseguenze ambientali e sociali spesso di grave rilevanza. Tutto questo provoca conseguenze devastanti nel tessuto sociale poiché se le Università non educano e non formano il carattere e non creano una profonda coscienza storica negli studenti non si potranno avere professionisti (scienziati, ricercatori, medici, avvocati, architetti, ingegneri…) pienamente consapevoli della loro funzione sociale, ma individui pronti soltanto a seguire le logiche, anche le più spietate, che portano soldi e garantiscono la carriera; un discorso simile di conseguenza sarà, purtroppo, valido anche per la classe politica. Questo è un aspetto che va sottolineato se è vero che «far crescere menti con aspirazioni e facoltà che si elevano dalla massa, capaci di guidare i compatrioti verso le alte vette della virtù, dell'intelligenza e del benessere comune: sono questi i fini per cui si auspicano università ben equipaggiate, i fini che tutte le università ben equipaggiate professano di perseguire. Grande è il disonore se, una volta intrapreso tale compito e attribuitosi il merito di realizzarlo, esse in realtà lo lasciano incompiuto» (John Stuart Mill).
Questo pensiero dominante, se si osservano le tendenze delle politiche mondiali operate dalle grandi corporations in materia di armi di distruzione di massa, farmaci e generi alimentari, può soltanto portarci alla guerra… una guerra che, in realtà, perderemo tutti se la dignità dell’uomo, del suo infinito spirito di creazione e della sua storia non riusciranno a farsi giustizia degli spiriti animali e dell’habendi rabies di un ceto di questo ristretto ceto di rapinatori che domina il pianeta. Non si potranno ignorare ancora a lungo, infatti, questioni vitali come il riscaldamento climatico, lo sfruttamento intensivo delle miniere e l’inquinamento delle falde acquifere e della terra – con conseguenze terribili per la salute umana – causate da un processo industriale criminale e dedito unicamente al profitto e allo sfruttamento distruttivo e sconsiderato delle risorse naturali ed umane «con la complicità e il permesso dei governi dove queste imprese operano. Il Mahatma Gandhi con la sua saggezza e la sua esperienza diceva che: “La Terra offre risorse sufficienti per i bisogni di tutti ma non per l’avidità di alcuni”» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «l’Unità», 18 novembre 2009). «Diceva Albert Einstein: “Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana”. Ma si dovrebbe aggiungerne una terza: la crudeltà di cui sono capaci gli uomini» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «la Repubblica», 31 dicembre 2008).
È un discorso che potrebbe sembrare apocalittico se non si considera che mentre vi sono nel mondo pochi milioni di individui che guadagnano oltre 1000 dollari l'ora vi è un miliardo di persone (un sesto dell'umanità [cito i rapporti Fao e Onu 2009]) che non ha accesso al cibo e all’acqua e 2,6 miliardi di persone prive di servizi igienico-sanitari di base; un discorso che potrebbe sembrare assurdo se non si riflette sul fatto che in Italia il 10% delle famiglie ricche possiede il 50% della ricchezza nazionale; un discorso che potrebbe sembrare esagerato se non si pensa che in una città come Milano, mentre in Italia vi sono 3 milioni di persone che hanno soltanto 50 euro al mese per mangiare, si buttano 180 quintali di pane al giorno; un discorso inaccettabile nel secolo XXI se non si osserva come nel nostro Paese, dove il diritto al lavoro e il massimo rispetto per chi lavora dovrebbero essere al primo posto, vi sono immigrati clandestini che si spaccano la schiena nelle nostre campagne, per 14 ore al giorno, ricevendo la miseria di 20 euro al giorno con una tassa di 5 euro al “caporale” che li fa lavorare.
Un discorso che potrebbe sembrare apocalittico, assurdo, esagerato, inaccettabile, ma, forse, non più della realtà che cerca velleitariamente di raccontare.

Antonio Polichetti