giovedì 10 dicembre 2009

La critica al neoliberismo di Noam Chomsky

“Crisi globale dell’economia”, è questa una delle espressioni più diffuse che hanno riempito le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali negli ultimi due anni. Perché? Che cosa è successo?
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti, pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi, la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri, professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti, il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la “Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo Studio di Pianificazione Politica n°23), scritto da George Kennan, capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita, le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza, libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste  linee guida, la chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”,infatti, era stato affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto da porre alla definizione  di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il 1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato ‘Parlamento Virtuale’: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di  incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[] Così in tutto il mondo,si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso spiega due fatti:
A)    il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B)    le industrie delle multinazionali americane hanno sempre sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che “egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti, le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente, come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?

di Matteo De Laurentis

lunedì 7 dicembre 2009

La legge dell'est

Nato negli anni Venti dopo la Rivoluzione d'Ottobre il sistema giuridico sovietico è stato preso a modello nella definizione dei diritti sociali di cittadinanza nei paesi del capitalismo occidentale
Nel dicembre del 1887, dopo pochi mesi di frequenza, un giovane studente di origini piccolo borghesi fu espulso dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università imperiale di Kazan in Russia. Frequentava circoli anti-zaristi. Le cose gli erano andate meglio rispetto al fratello, giustiziato poco prima per un attentato allo Zar. Il giovane, Vladimir Ilich Ulianov, era un tipo determinato. Fece domanda di riammissione a Kazan, ma la domanda venne respinta. Fece domanda per andare a studiare all'estero, ma anche questa non fu accolta. Finalmente riuscì ad iscriversi, come «studente esterno» ossia senza diritto di frequenza, all'Università di San Pietroburgo. Nel 1891, il giovane Ulianov si presentò per sostenere l'esame di avvocato. Ricevette il massimo voto in tutte le materie: l'unico candidato del suo anno a raggiungere tale eccellenza. A dispetto del brillante avvio, Ulianov non era destinato a una luminosa carriera forense.

Meno di una generazione dopo aver dimostrato di conoscere il diritto zarista meglio di tutti, Ulianov, ormai noto come Lenin, lo abolì interamente con un tratto di penna. Incominciava, circondato da inenarrabili difficoltà, un itinerario nella creazione di un nuovo ordine giuridico, il cui impatto globale continuò fino a vent'anni fa, consentendo al mondo giuridico occidentale di raggiungere lo zenith della sua civiltà.



La legalità sovietica

Non credo esista un aspirante avvocato (o notaio o magistrato) che, durante la preparazione del suo esame, non odii l'oggetto del suo studio fino al punto di desiderarne, anche solo per un momento, la sua abolizione. Né credo esista una più efficace descrizione dell'atteggiamento di un rivoluzionario rispetto al diritto di quella che si trova in Voltaire: «Volete buone leggi? Buttate tutte quelle che avete e createne delle nuove». Non molti tuttavia sanno che tale anelito diffuso (lo si ritrova tale e quale nella retorica dei primi anni della Rivoluzione Americana sbeffeggiata da Grant Gilmore) fu soddisfatto dai bolscevichi in modo più avanzato e costruttivo di quanto non sia mai riuscito a chiunque altro. Un esperimento di costruzione di una nuova giuridicità che non ha mai avuto parti per tutto il Novecento.

Mi pare risponda ad una necessità di verità storica, proprio nel periodo in cui siamo circondati da mediocre letteratura celebrativa della rivoluzione del 1989 che spunta, guarda caso, copiosa proprio in concomitanza con lo straparlare sulla fine della crisi, ripercorrere almeno per brevissimi cenni, il contributo dato all'ordine giuridico globale dai settant'anni di sviluppo della legalità socialista. Ciò non solo per finire il trittico di esperienze giuridice «altre» pubblicato su queste pagine (Il manifesto del 30 settembre e del 15 novembre), ma soprattutto per superare un'immagine della legalità socialista che ancor oggi, a vent'anni dalla fine della Guerra Fredda, risente della più becera propaganda atlantista. Infatti, durante la Guerra fredda autori come Hayek, Rostow, o Roscoe Pound e successivamente innumerevoli cantori sulla scia di Fukuyama hanno costruito un feticcio di legalità occidentale in contrapposizione con l'(il)legalità socialista.



I processi alla Lubianka

La costruzione dell'immagine dominante di legalità occidentale non passa soltanto attraverso la «mancanza» di legalità nell'altro contemporaneo, dalla Cina al mondo islamico, ma si fonda soprattutto nel rifiuto di riconoscere il contributo del socialismo realizzato alla nostra stessa esperienza giuridica, quindi attraverso un diniego dell'esperienza storica realizzata non soltanto in Unione Sovietica ma anche da noi in passato. Parlando nel 1990, Bush padre dichiarava che, «con l'Unione Sovietica finalmente scomparsa», gli Stati Uniti avrebbero «costruito un mondo in cui il regime di legalità avrebbe sostituito la legge della giungla, un mondo in cui le nazioni riconoscono le responsabilità condivise per la libertà e la giustizia, un mondo dove il più forte rispetta il diritto del più debole».

Si tratta adesso di far finalmente giustizia di questa idea della legalità socialista come «legge della giungla» accompagnata da truculente immagini di processi sommari condotti alla Lubianka, o nella periferia Africana dal Negus rosso durante il terrore del Derg. È chiaro che ci si incammina su una strada non facile perché quello che ci interessa è proprio ristabilire il contributo del socialismo realizzato (con stalinismo e tutto il resto) alla legalità internazionale e non il contributo di civiltà dell'ideale socialista, il che è tanto più facile e scontato quanto meno interessante. In effetti non è sufficiente cimentarsi sulla tragica diatriba degli anni trenta che costò la vita a Evgeny Pashukanis, autore di un fondamentale The General Theory of Law and Marxism, caduto in disgrazia a seguito della polemica con il grande inquisitore Andrey Vishinsky, sulla sparizione necessaria o meno del diritto (e quindi sul suo ruolo e su quello dello Stato) nella transizione fra il socialismo e il comunismo.

Voglio piuttosto mostrare come le idee giuridiche di Lenin abbiano portato ad una riscrittura incredibilmnte avanzata del diritto nuovo, promulgando leggi volte finalmente alla liberazione e non all'oppressione. Mi sembra che specchiarsi in questo diritto abbia obbligato il capitalismo a trasformare profondamente le proprie istituzioni giuridiche di sfruttamento economico in direzione più inclusiva e rispettosa della persona. È ovvio che la diversa narrativa che intendo proporre condivide l'analisi e la valutazione di Angelo d'Orsi sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino sulla civiltà giuridica, il che ci obbliga oggi ad un immane sforzo ricostruttivo perchè il capitalismo non ha più incentivi internazionali a mostrare un volto civile.



Una costituzione da studiare

La legislazione bolscevica iniziò fin dal 1917 a farsi carico delle condizioni della popolazione sovietica. Lenin sognava un sistema fondato sul diritto ad un tetto sulla testa, a cure mediche gratuite e ad un lavoro. Nessun governo nella storia si era mai prima fatto carico di simili responsabilità sociali. Prima degli anni Venti, quando ancora l'industrializzazione era lontana, la legge garantì il posto di lavoro in un momento storico in cui in Occidente il padrone poteva licenziare il lavoratore in qualunque momento. I lavoratori sovietici avevano diritto all'assicurazione medica a spese del datore di lavoro, a benefici in caso di inabilità al lavoro, a periodi significativi di riposo retribuito durante la malattia. La giornata lavorativa ricevette un limite di otto ore per sei giorni la settimana (ridotte a 7 nel 1928) quando ancora negli Stati Uniti era incostituzionale limitare per legge l'orario di lavoro per i fanciulli. Si andava in pensione dai lavori usuranti a 50 anni, e si istituirono scuole di formazione permanente, gratuite, in cui i lavoratori potessero conseguire titoli medi e superiori. Nacque il quei primissimi anni la contrattazione collettiva di lavoro e furono istituite forme di democrazia industriale. Un sostenuto programma di nazionalizzazioni rese effettivi questi diritti, soprattutto quello all'impiego. Durante la crisi del '29 quando la disoccupazione raggiunse cifre da capogiro in Occidente, l'economia sovietica vantava livelli occupazionali altissimi.

Le donne ricevettero un livello di protezione giuridica che altrove fu raggiunta, quando raggiunta, mezzo secolo più tardi. Per esempio, alle madri sole con figli a carico fu garantito trattamento preferenziale, impiego vicino casa, e asili gratuiti di supporto. Tutti questi diritti, inclusi quelli alla pari retribuzione fra i generi, vennero costituzionalizzati per la prima volta da Stalin nel '36. Già dal '17 si cercò di rendere effettivo il diritto ala casa mediante moratoria sugli affitti e, poco dopo, equo canone. Le industrie dovevano offrire casa ai lavoratori. Dal 1921 nelle case nazionalizzate il lavoratore non doveva pagare né affitto né spese. Impressonanti programmi di edilizia pubblica risolsero, seppur in maniera insoddisfacente, il problema della casa già con l'industrializazione degli anni Trenta.



Lo scontento del quarto stato

I progressi rispetto alla legislazione occidentale furono altrettanto significativi in altri settori: l'eguaglianza fra gli sposi, il divorzio e l'aborto, introdotti senza restrizioni già nel 1917. Le donne avevano il diritto ad assentarsi per maternità conservando il posto di lavoro. Già dal 1918 oltre mezzo secolo prima che in Italia i bambini nati fuori dal matrimonio si videro riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. Nel diritto penale Lenin si sforzò di rendere effettivo il principio di rieducazone dovuto alla concezione del crimine come prodotto delle condizioni sociali. Le pene furono radicalmete ridotte, il carcere sostituito da campi di rieducazione in cui si poteva imparare un lavoro. L'eutanasia fu depenalizzata e così la sodomia fin dal 1920. Importanti programmi, informati alla tutela dei diritti delle lavoratrici del sesso, vennero istituiti per risolvere il problema della prostituzione. Nel diritto internazionale il governo sovietico denunciò la prassi dei trattati segreti pubbicandone oltre 100 conclusi dallo Zar ai danni dei più varii popoli. Nel 1919 il governo bolscevico rinunciò a tutti i suoi privilegi internazionali comprese capitolazioni e extraterritorialità di cui godeva in Persia, Cina, Afghanistan e Turchia.

Questo insieme di legge nazionali gettarono nel panico le Cancellerie occidentali alle prese con lo scontento del quarto stato. La risposta a questo stato di cose generò una trasformazione giuridica che sembrava definitive anche in Italia ancora quando, nei primi anni Ottanta, frequentavo la facoltà di Giurisprudenza da studente (statuto lavoratori, equo canone, legge sulla casa). Subito dopo la conferenza di Versailles, nel primo dopoguerra, nacque l'Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) e il modello sovietico ispirò gli aspetti più sociali delle Costituzioni del secondo dopoguerra, nonché gli aspetti che oggi sembrano più utopistici della Carta delle Nazioni Unite e della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo. La legislazione sovietica guidò la trasformazione nella concezione occidentale del diritto internazionale (inclusa la decolonizzazione), del diritto di famiglia, del diritto penale, del diritto contrattuale, di quello di proprietà e perfino della desegregazione razziale negli Stati Uniti. Nell'Occidente capitalista il rapporto fra diritto privato e diritto pubblico uscì sconvolto a favore di quest'ultimo. Con il muro di Berlino e con l'epurazione dei giuristi della Germania Est che seguì l'unificazione, caddero non soltanto un ideale ma l'anelito all'incusione sociale tramite il diritto che sopravviveva nella Repubblica democratica tedesca.

Senza incentivi esterni, in nome della flessibilità, dell'efficienza e del mercato siamo tornati all'autoritarismo bigotto dei padroni delle miniere, che esportiamo sotto la voce democrazia.

di Ugo Mattei, «il manifesto», 5 dicembre 2009

Un mondo di lacrime e sangue

È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che laborsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.

Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?

La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?

Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?

Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?

L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.

L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?

Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».

Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.

Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?

Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.

Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.

Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.

Di Cosma Orsi, «il manifesto», 25 novembre 2009

La sinistra europea senza idee né progetti

Il socialismo europeo sta attraversando una crisi profonda. Se lasciamo da parte le socialdemocrazie dei pae si scandinavi, dove la conlittualità sociale è meno acuta, e i neonati partiti socialisti dell’Europa dell’est, possiamo constatare che negli altri casi – Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia – i partiti socialisti vivono un periodo di grandi diicoltà. L’unica eccezione è la Spagna. In Francia la crisi è cominciata nel 2000 con il fallimento dell’esperimento della “sinistra plurale”. Alle politiche per il rilancio dell’economia del 1997 è seguita una linea più liberista a partire dal 1999. Lionel Jospin, allora leader socialista e primo ministro, è stato il simbolo di questo cambiamento di rotta. Quando la multinazionale all’aumento dell’astensionismo elettorale. In Gran Bretagna il simbolo del fallimento del New Labour è stata l’uscita di scena del suo ideatore, Tony Blair. A conti fatti, la tanto celebrata terza via non è stata altro che una riproposizione, più edulcorata e ammiccante, del thatcherismo, basato sullo smantellamento dei servizi pubblici e sulle privatizzazioni. Oggi il Partito laburista è in caduta libera. Durante l’ultimo congresso il leader Gordon Brown ha proposto un welfare state alternativo, fondato su un “nuovo modello economico, sociale e politico” e sulla “regolamentazione del mercato”. Ma non ha speciicato da dove dovrebbero arrivare le risorse per inanziare il suo progetto e non ha chiarito come intende convincere le classi medie, che chiedono più stato sociale e meno tasse allo stesso tempo. La Gran Bretagna non fa parte della zona euro e perciò ha più libertà nella gestione del debito pubblico e del deicit di bilancio, che hanno toccato rispettivamente l’80 e il 12,4 per cento del pil. Ma il numero dei disoccupati, che sono già tre milioni, è destinato ad aumentare: senza incentivi iscali e senza nuovi aumenti della spesa pubblica sembra impossibile salvare i posti di lavoro. Da Roma a Berlino In Italia la sinistra socialista si è disgregata negli anni novanta ed è stata risucchiata in un buco nero. La nascita del Pd, con l’alleanza tra ex comunisti e parte della Democrazia cristiana, ha avuto due conseguenze negative: la scomparsa del socialismo, inteso come progetto politico e ideologico, e la creazione di un ampio bacino elettorale per il populismo reazionario di Silvio Berlusconi. L’attuale crisi del berlusconismo più che giovare alla sinistra sta mettendo in evidenza la sua debolezza. In Germania il Partito socialdemocratico (Spd) è in crisi dal 2000, quando uno dei suoi leader, Oskar Lafontaine, riiutò di appoggiare la svolta liberista di Gerhard Schröder. Nel 2005 l’Spd ha perso le elezioni e ha accettato di formare un governo di coalizione con i cristianodemocratici Internazionale 823
27 novembre 2009 19 (Cdu). Abituati a tessere alleanze con la destra, i socialdemocratici non hanno saputo proporre soluzioni credibili di fronte alla crisi e oggi sono il partito della sinistra europea in maggiore diicoltà. Oltre a subire la spaccatura voluta da Lafontaine, fondatore del partito di sinistra Die Linke, dal 1998 l’Spd ha perso circa dieci milioni di voti, anche a favore di verdi, liberali e cristianodemocratici, e la recente elezione alla presidenza di Sigmar Gabriel, un centrista senza un proilo ideologico deinito, non sembra suiciente a cambiare le cose. Un nuovo welfare Questa breve panoramica ci permette di individuare alcune tendenze di fondo. Prima di tutto i partiti socialisti occidentali negli anni novanta hanno accettato di adattarsi alla globalizzazione, scegliendo la cosiddetta terza via: non solo non hanno oferto un progetto alternativo al loro elettorato tradizionale (le classi medie e popolari), ma non hanno nemmeno compreso tutte le conseguenze della loro scelta. In questo modo sono diventati più aidabili dal punto di vista governativo, ma hanno smarrito gran parte della loro identità. Da qui deriva il paradosso attuale: i partiti socialisti sono travolti dalla crisi del liberalismo, mentre la destra liberale non esita ad applicare le ricette tradizionali del welfare per afrontare la recessione. In altri termini la destra si sta dimostrando più pragmatica della sinistra che, abbandonate le idee socialiste, si è ciecamente aidata alle virtù del social-liberismo. In Europa occidentale, inoltre, le forze di sinistra sono incapaci di reagire di fronte allo spostamento a destra della società: un fenomeno che è il risultato dell’instabilità creata dalla deregulation economica e sociale degli ultimi anni e che si traduce in una forte domanda di sicurezza (sociale, economica e identitaria) e in un ritorno al nazionalismo. Queste due tendenze di fondo, presenti ovunque in Europa, mettono a nudo la grave crisi d’identità della socialdemocrazia, ormai priva di un progetto speciico. In questi ultimi 15 anni la vittoria del liberismo non è stata solo economica, è stata soprattutto ideologica e culturale. La sinistra non sembra avere più gli strumenti, i metodi o la visione per interpretare il mondo e per agire. E ha sempre maggiore diicoltà a diferenziarsi dalla destra. Questa mancanza di progetti e idee viene mascherata da una retorica fondata sulla difesa dei suoi valori tradizionali: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà e la tolleranza. Il punto è che i partiti socialisti sembrano ricordarsi dell’importanza di questi valori solo quando sono all’opposizione per dimenticarsene quando vanno al governo. I socialisti europei si trovano di fronte a un bivio cruciale: o mettono a punto un progetto credibile o sono destinati a scomparire lentamente. Che fare di fronte alla crisi della globalizzazione? Come reagire al riiuto degli europei nei confronti del liberismo? Come afrontare la delusione e lo scetticismo delle classi popolari e medie? La nascita di un nuovo welfare europeo, oggi più necessario che mai, dipende dalle risposte che la sinistra europea riuscirà a dare a queste domande. s b



L’AUTORE Sami Naïr è un politologo francese di origine algerina. Insegna all’università Paris VIII e collabora con diversi giornali europei, tra cui El País e Libération.



di Sami Naïr, «El País», Spagna da «L'Internazionale»

sabato 21 novembre 2009

Il mondo ostaggio dei rentiers

La crisi economica, questa nostra sconosciuta. Viene presentata così l'attuale recessione, alternando la previsione di una uscita ravvicinata da essa a una lettura che indica nella lunga durata la sua dimensione temporale. Allo stesso tempo l'oscillazione tra le speranze, da parte della teoria economica mainstream, di uscirne fuori in continuità con il passato e la convinzione che «niente sarà come prima» segna la discussione pubblica. Con l'intervista a Giorgio Lunghini inizia una ricognizione su come autorevole economisti italiani affrontono la natura della crisi attuale. Studioso noto ai lettori de «il manifesto», Lunghini propone di leggere la crisi sia in una prospettiva storica che di analisi critica del capitalismo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Un sistema economico capitalistico - un'economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes - è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali e elementi monetari c'è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d'acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico - il «mercato» - non è capace di autoregolarsi. In tutto ciò ha un ruolo essenziale il saggio dei profitti che, come hanno mostrato gli economisti classici, ma sopra tutti Marx, tende a cadere. Quando il saggio dei profitti è tale da generare crisi di realizzazione, poiché vi si associano bassi salari e disoccupazione, e a un tempo tale da generare crisi di tesaurizzazione, il sistema capitalistico va incontro a crisi che se si vuole si possono chiamare sistemiche. Così è stato nella crisi del '29 (le cui radici risalgono però al 1870), così è oggi. In tutti e due i casi - e a ciò mi limito, quanto al confronto tra il '29 e l'oggi - la crisi si è manifestata dopo un tentativo fallimentare di contrastare la caduta del saggio dei profitti con un processo di globalizzazione, di riduzione del mondo a mercato. Aggiungo soltanto che la risposta europea alla crisi del '29 fu il nazifascismo.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Di per sé l'uso della matematica nell'analisi economica non è biasimevole, lo diventa quando si vogliono trattare in forma matematica questioni che non lo consentono, oppure quando non si trattano questioni importanti perché non consentono una trattazione matematica. Di questioni del genere in economia ce ne sono molte. In visita alla London School of Economics, l'anno scorso, la Regina Elisabetta aveva chiesto - con regale candore - come mai soltanto pochi economisti avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, in cui scrivono che una delle ragioni principali dell'incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che l'economia - l'economics - è diventata una branca delle matematiche applicate.
I firmatari della lettera ricordano anche che l'insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull'insegnamento postuniversitario dell'economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che «i programmi di formazione post-laurea possano produrre una generazione con troppi idiot savants, addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti». Nell'educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l'opinabile credenza in una «razionalità» universale né l'«ipotesi di mercati efficienti». Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza - l'orgogliosa consapevolezza - della dimensione politica dell'analisi economica.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Non c'è nessun dubbio che la libera circolazione dei capitali, libera nella misura e nelle forme attuali, sia pericolosa per la democrazia economica e dunque per la democrazia in generale. È la tesi del «senato virtuale», una tesi su cui molto insiste Noam Chomsky (che la mutua da B. Eichengreen) e che a me pare difficile da confutare. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano «irrazionali» tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale).
I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Questo è un portato della liberalizzazione sconsiderata dei movimenti di capitale, a sua volta un effetto dello smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni Settanta: ne sono ovvie le conseguenze per la democrazia economica (i più colpiti sono i più deboli tra i cittadini dei diversi paesi) e dunque per la democrazia in generale.
Credo che la politica economica debba andare al di là della semplice regolamentazione dei mercati, ma anche se si limitasse a questa dovrebbe trattarsi di un disegno condiviso di politica economica e finanziaria internazionale. Un nuovo piano Keynes - che aveva ben chiari i rischi di una circolazione dei capitali sfrenata - non mi pare in vista.
Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Temo che il modello europeo di stato sociale non sia più un modello nemmeno per gli europei. Lo stato sociale è una delle più grandi invenzioni politiche e istituzionali del secolo passato, la sua distruzione una delle più gravi responsabilità dei governi europei degli ultimi trent'anni. La responsabilità è tanto più grave, in quanto ha natura culturale ancor prima che politica. Anche in Europa ha avuto un peso il senato virtuale, ma soprattutto ha pesato una adesione acritica, antistorica e non necessitata dalle circostanze, al liberismo imperiale: che nulla ha a che fare con la tradizione liberale, ancor prima che socialdemocratica, dell'Europa. In verità non è mai esistito un vero e proprio modello europeo di stato sociale, le varianti nazionali avevano storie e articolazioni differenti. Ciò che ancora oggi costituisce un modello intellettuale - modello nel senso di disegno da prendere ad esempio, e cui dovrebbero guardare per primi i keynesiani dell'ultima ora - è la «Filosofia sociale» cui avrebbe potuto condurre la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes.
Oggi come allora i «difetti» più evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità ad assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito (che sono tra le cause principali della crisi attuale). Per rimediare a questi difetti, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione), l'eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell'economia. La redistribuzione del reddito comporterebbe un aumento della propensione media al consumo e dunque della domanda effettiva. L'eutanasia del rentier, dunque del «potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale.
Per quanto riguarda l'intervento dello stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, «l'azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Se i difetti denunciati da Keynes fossero stati emendati con le misure da lui indicate, questa crisi non ci sarebbe stata (talvolta i ragionamenti controfattuali sono efficaci), e d'altra parte temo sia improbabile che questa filosofia sociale sia messa in pratica oggi nel mondo occidentale.
Dunque un'uscita dalla crisi sull'asse Washington-Pechino? Un qualche negoziato tra Stati Uniti e Cina è imposto dal nuovo assetto della divisione internazionale del lavoro, ma quale sarà la strategia di Pechino? Il mondo riconosce che la Cina sta emergendo come grande potenza, ma è un peccato - scriveva di recente l'Economist - che a tutt'oggi non sempre agisca come tale.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Della necessità di una redistribuzione del reddito per via fiscale, della opportunità di una eutanasia del rentier, e della necessità di un intervento attivo dello stato ho già detto. Le politiche dell'offerta fanno parte di quel paradigma teorico, la cui accettazione da parte dei governi ha portato alla crisi attuale. La disoccupazione e il timore di perdere il lavoro innescano un circolo vizioso: consumatori e imprese riducono le loro spese, generando nuovi tagli dell'occupazione. Fino a quando i salari e l'occupazione non saranno risaliti almeno ai livelli di dieci o vent'anni fa, la crisi non sarà finita.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Se quel debito fosse stato contratto per assicurare istruzione, sanità e assistenza ai cittadini, le future generazioni non dovrebbero sopportare nessun prezzo, poiché a fronte di quel debito avrebbero oggi e domani quelle strutture e quei servizi. Il prezzo che pagheranno è la mancanza di quelle strutture e di quei servizi, a causa di un debito pubblico che è stato contratto a favore di quei privati che hanno determinato la crisi attuale.

di Cosma Orsi, «il manifesto», 18 novembre 2009

La Merkel investe nella ricerca. Un bello schiaffo all’Italia

Il governo di centro-destra di Angela Merkel ha reso noto il suo programma di legislatura per la ricerca e l’alta educazione: più 5% di aumento ogni anno fino al 2015 per i finanziamenti ai due grandi centri di ricerca statali, la Max Planck Society e il DFG (Deutsche Forschungsgemeinschaft), più 7,7 miliardi più 5 miliardi di euro, nuovi e aggiuntivi, per le università, dal 2011 al 2015 di cui 5 miliardi per lo sviluppo generale e 2,7 miliardi dedicati all’”Iniziativa per l’Eccellenza”, e infine 14,6 miliardi di euro per lo sviluppo dell’alta tecnologia nei settori considerati strategici: energia, clima, salute e sicurezza. Per uscire dalla crisi, dunque, la Germania punta sul «pacchetto conoscenza»: più scienza e più formazione. Il programma è davvero significativo per almeno tre motivi. Primo: viene al termine di un anno in cui, malgrado la recessione, gli investimenti del governo federale in scienza e sviluppo sono cresciuti del 10%. Secondo, ripropongono tal quale il programma del precedente governo di centro-sinistra, guidato dalla stessa Angela Merkel: una continuità che dimostra come la scienza e l’alta educazione siano una scelta strategica malgrado l’alternarsi dei governi. Terzo: il programma punta, come in Italia, sulla valorizzazione del merito, a Berlino non è sostenuta solo dalle parole e dalle norme, ma da investimenti concreti. Due aspetti particolari colpiscono. Il primo riguarda l’«Iniziativa per l’eccellenza», ovvero il tentativo di premiare le università che fanno meglio. Finora l’iniziativa ha potuto contare su una fase pilota di tre anni, finanziata con 30 milioni di euro l’anno, che ha dato lavoro a 4.200 ricercatori, per la gran parte giovani, di cui il 40% donne e il 25% provenienti dall’estero (molti dall’Italia). Un altro aspetto riguarda l’alta tecnologia. Gran parte degli investimenti in ricerca ha riguardato il settore dell’energia rinnovabile. Con un successo: in dieci anni le fonti rinnovabili sono passate dal 6 al 17% del totale.

di Pietro Greco, «l'Unità», 16 novembre 2009

L’estinzione dello Stato

Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?

L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".

Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.

Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.

Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.

Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare.

Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata.

La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.

Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.

Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica

di Stefano Rodotà «la Repubblica», 20.11.2009

lunedì 16 novembre 2009

La «borghesia camorristica»?Esiste, ma nessuno ne parla


L’attenzione sull’importanza della criminalità dei potenti nell’interpretazione dei processi d’istituzionalizzazione della camorra e la legittimazione che il fenomeno criminale riceve in forme dirette e indirette da ampi settori della borghesia dell’area metropolitana napoletana non ha la stessa radicalità e continuità interpretativa che registriamo, invece, a proposito della «borghesia mafiosa». La domanda, allora, non è peregrina: perché? (…) Perché non si è radicata anche per l’organizzazione criminale camorrista una tradizione di studi (e di indirizzo investigativo) capace di spiegare e interpretare qual è il ruolo che segmenti di ceto professionale, imprenditoriale, burocratico, tecnico — insomma quella che a ragione si può definire borghesia camorristica ha storicamente avuto nel garantire alla camorra la sua riproducibilità? Le ragioni di questo ritardo sono ascrivibili sia ad una sorta di defezione sistematica sul tema della camorra, della sua cultura, delle sue commistioni da parte delle grandi dottrine quali il liberalismo e il cattolicesimo, sia alle ondivaghe posizioni della sinistra che ha oscillato tra le cristallizzazioni o distorsioni interpretative e i lunghi silenzi sul fenomeno. (...) Le connessioni tra esponenti della borghesia e gruppi criminali della camorra sono state addirittura spesso negate o sottovalutate, nonostante il dominante originario carattere urbano del fenomeno criminale esponesse tali componenti a relazioni sociali trasversali, al punto che la consapevolezza dell’esistenza di questo intrigo collusivo veniva già manifestata nel 1901 da Saredo il quale parlava di «bassa» e «alta» camorra, quest’ultima «costituita dai più scaltri ed audaci borghesi».

«L’alta camorra»
La percezione distorta della delittuosità consiste, principalmente, o nel vincolarla alle classi sociali caratterizzate da precarietà economica o a quelle élitarie L’attenzione sull’importanza della criminalità dei potenti nell’interpretazione dei processi d’istituzionalizzazione della camorra e la legittimazione che il fenomeno criminale riceve in forme dirette e indirette da ampi settori della borghesia dell’area metropolitana napoletana non ha la stessa radicalità e continuità interpretativa che registriamo, invece, a proposito della «borghesia mafiosa». La domanda, allora, non è peregrina: perché? (…) Perché non si è radicata anche per l’organizzazione criminale camorrista una tradizione che appaiono molto distanti dall’osservatore medio. È così che si rende assente, svanisce quella vasta «area grigia» che ospita svariate figure professionali, funzionari pubblici, amministrativi, consulenti tecnici, esponenti del mondo delle banche, delle finanziarie, del mondo accademico, imprenditori. E ancora, operatori e intermediari economici le cui ascese sociali si fondano su un modus operandi irregolare e su attività illecite, nuove figure professionali legate alla classe dei servizi pubblici e privati e che offrono servizi alle organizzazioni malavitose; non di rado, anche membri delle forze dell’ordine e della magistratura. (...) Relativamente al contesto napoletano proprio la miriade di attività economiche illegali, para-legali, sommerse, illecite che consentono di produrre, commercializzare e consumare beni collocabili sui diversi mercati (legale, illegale e criminale) favorisce l’intreccio delle collusioni, delle cooperazioni e degli scambi con esponenti delle classi borghesi locali, o addirittura è un fattore di spinta, al punto da potersi legittimamente parlare di «borghesia camorristica ». Il radicamento dei gruppi e delle organizzazioni camorristiche, pertanto, non deriva soltanto dai rapporti sociali che esse hanno sviluppato all’interno della plebe, delle classi marginali ed economicamente deboli; non è solo il prodotto di un inquinamento delle subculture devianti, ma dipende anche dalla capacità nel tempo di evolvere le relazioni fiduciarie e di scambio in direzione di una configurazione sociale trasversale alle classi e ai ceti economici, in modo da costituire un blocco sociale che ha avuto un ruolo decisivo nei processi di accumulazione delle differenti risorse e nei rapporti sociali. (...) L’esistenza di un’economia camorristica, ossia un’economia fondata sulla vasta gamma delle attività produttive illegali e criminali intanto ha assunto un peso ed un’evoluzione imprenditoriale tale da giovarsi, oramai, di investimenti e transazioni operate anche sui mercati legali perché usufruisce dell’apporto della borghesia camorristica e con questa intreccia relazioni che non sono solo il prodotto di «deviazioni professionali», ma il risultato di una stabile rete di scambi e commistioni confusive utilizzate specialmente nella fase «matura» dell’accumulazione, quando, cioè è necessario investire parte del capitale circolante nelle attività legali. Questo è il momento in cui gli effetti di alterazione del tessuto economico legale si propagano e si avvertono in misura crescente fino ad assumere un carattere distorsivo dei processi di sviluppo economico.

Sistemi e tipi di mercato
È fuorviante ritenere che i gruppi criminali prosperino solo perché si diffondono i mercati criminali o perché attraverso la forza intimidatoria i sodalizi mafiosi riescono ad imporsi sia nelle attività economiche che in quelle commerciali legali. In realtà tre condizioni strutturali hanno modificato le ragioni della vincente espansione del crimine organizzato in Campania: l’espansione del mercato politico, ossia l’aumento delle risorse che vengono mobilitate in forme dirette o indirette dalle istituzioni politico-amministrative; la dinamica collusiva tra ceto imprenditoriale ed organizzazioni del crimine basata su relazioni di scambio incentrate ormai sull’offerta di servizi alle imprese e opportunità vantaggiose (come l’affaire rifiuti ha dimostrato) che accrescono in forma indiretta gli utili delle imprese; l’espansione nella regione e oltre delle attività sommerse, delle produzioni in nero, delle economie semilegali le quali configurano un insieme differenziato di beni e servizi prodotti e distribuiti in forme illegali da imprenditori che trovano più conveniente «interagire» con la camorra piuttosto che attirare l’attenzione dello Stato sui profili illegali delle attività svolte.(..)

Il capitale sociale
La camorra si sviluppa e cresce perché può contare sulla produzione di un intenso e forte capitale sociale. Ossia, sulla produzione di un insieme di risorse immateriali (...) che utilizzando la tradizione, la subcultura deviante, la stessa religione, il valore dei riti sociali garantisce la forza, la riproducibilità e la stabilità parziale del clan. (...) Queste risorse simboliche alimentano in forma vincolante l’agire sociale di queste comunità avide più di quanto possa fare il riferimento a norme universalistiche siano esse civili, religiose o ideologiche. I risultati positivi sono tali per gli afferenti che il self-interest ne viene rafforzato e s’indebolisce il richiamo al bene comune. (...)La forza di questo capitale sociale si giova del fatto che le società locali non hanno prodotto per contrasto una forte coscienza civile (a livello di sfera pubblica, di istituzioni politiche, di società civile, di organizzazioni economiche, di istituzioni culturali) consapevole della gravità della presenza di tali fenomeni, né una costante, attenta e illuminata mobilitazione a sostegno dell’operato delle forze di polizia, della magistratura, di quanti si danno da fare per combattere ogni forma di illegalità. (...)

Come uscirne?
Occorre che la magistratura aggredisca i capitali e i patrimoni illeciti accumulati; siano arrestati i latitanti (simbolo della sconfitta dello Stato); si intervenga significativamente nelle periferie delle aree urbane attraverso l’azione della scuola, del volontariato, dei gruppi civili; sia prodotto un più efficace controllo legale e sicuro del territorio; ci sia una forte stigmatizzazione sociale di tutte quelle figure che cooperano, fanno affari e colludono con i gruppi criminali (imprenditori, professionisti, politici, ecc.); sia prodotta una maggiore sinergia fra la sfera investigativa e quella «analitica» (del mondo della ricerca sociale) per ideare nuove e più efficaci politiche di contrasto e sicurezza.

di Giacomo Di Gennaro, «Corriere del Mezzogiorno» Dossier dell'Osservatorio sulla camorra e sull'illegalità, 12 novembre 2009.

Colletto bianco per la mafia

“Il Governo ha rafforzato il 41 bis, ha reso più efficace la confisca dei beni ecc…” Lo scrive il Giornale, lo ripetono i parlamentari del Pdl ogni volta che si presenta un caso Dell’Utri o un caso Cosentino. Come dire: se la mafia avesse i suoi referenti politici, come i magistrati, “comunisti” vogliono dimostrare, il Governo non la combatterebbe. Tesi incontestabile. Ma prima di rispondere alla domanda: cosa chiede la mafia al “suo” referente politico occorre spiegare cos’è la mafia oggi. A fianco di quella militare esiste la borghesia mafiosa inserita nei circuiti economici, produttivi del Paese e nelle amministrazioni pubbliche. Trattasi di soggetti non organici, difficilmente identificabili processualmente, legati alla mafia militare classica da rapporti mutualistici: l’imprenditore a cui fa aggiudicare l’appalto, il politico a cui fa votare; l’impiegato, il dirigente pubblico a cui favorisce la carriera; il docente universitario a cui garantisce appoggi nel consesso accademico; il medico a cui garantisce un incarico in una clinica privata. Ognuno di loro accresce il potere di penetrazione della mafia nella società rendendola un catalizzatore sociale. L’appartenenza dei soggetti è trasversale, la mafia guarda all’opportunità che quel candidato può offrire anche sulla base del suo pensiero mafioso, nuovo fertilizzante che varca i confini geografici, da nord a sud. Subappaltare un’opera pubblica o realizzarla con asfalto, cemento avariato è un reato di frode nelle pubbliche forniture punibile fino a 5 anni patteggiabile, che fa risparmiare soldi da dare alla mafia che ha agevolato l’appalto e garantito che l’ente appaltante contiguo non eseguisse i controlli. In che modo il politico referente la favorisce la mafia? Se, ad esempio, sarà nominato al Cipe, alla faccia delle reali esigenze del territorio e di qualsiasi seria politica di sviluppo, gli garantirà l’allocazione delle risorse per opere pubbliche. Ecco come l’inasprimento del 41 bis per la borghesia mafiosa che contribuisce a varare pacchetti sicurezza i cui non vi è traccia dei reati che commette, diventa un prezioso patentino antimafia. Le pene per questi reati che favoriscono la mafia, pur non essendo commessi da mafiosi, non vengono inasprite perché la borghesia mafiosa è entrata nel corpo elettorale. Il solo pacchetto sicurezza antimafia che questo Governo dovrebbe fare è quello che prevede pene severe per i subappalti in nero e per le frodi a danno dell’erario, mentre sta varando il cosiddetto processo breve di cui potrà avvalersi in concreto proprio chi si macchia di questi reati.

di Sandra Amurri, «Il Fatto», 13 novembre 2009

Milano, così gli imprenditori favoriscono la 'ndrangheta

La ’Ndrangheta che conquista Milano arriva fino in via Montenapoleone, ai piani alti di un meraviglioso palazzo d’epoca al numero 27. Qui fino a pochi mesi fa aveva sede la Kreiamo spa, agenzia immobiliare da oltre un milione di euro di fatturato l’anno. Socio di maggioranza è Alfredo Iorio, figlio di quell’Achille Io-rio, morto nel 2008, e fino ad allora capogruppo di Forza Italia nel Consiglio comunale di Cesano Boscone, paese a sud della città. Prima di allora, lo stesso Achille Iorio, origini calabresi, avrebbe favorito il passaggio del denaro della ’Ndrangheta proprio nella Kreiamo. Nel 2006, infatti, i figli Andrea e Alfredo diventano soci della Io-rio Immobiliare. Questa l’ultima denominazione societaria, perché prima si chiamava Sa. Fran con amministratore unico Serafina Papalia, moglie di Salvatore Barbaro, imputato per associazione mafiosa nel processo Cerberus, e soprattutto figlia del superboss della ’Ndrangheta Rocco Papalia. Oggi la Iorio Immobiliare è diventata Kreiamo.L’inquietante intreccio societario emerge dalla carte dell’operazione “Parco sud” che ieri ha portato all’arresto di 15 persone, tra cui lo stesso Alfredo Io-rio e Andrea Madaffari, vicepresidente di Kreiamo. Nel decreto di fermo compare anche un perito del tribunale che per conto del clan Barbaro avrebbe favorito una compravendita immobiliare.
Affari e mafia, dunque. Un mix sedimentato nella zona a sud di Milano. “Qui – scrive il gip Giuseppe Gennari nella sua ordinanza – gli operatori economici del settore edilizio e movimento terra sanno che devono tenere presente certi equilibri, che ad alcune persone non si possono dare risposte negative”. E ancora: “Chi sbaglia a muoversi ne subisce le conseguenze e lo fa rigorosamente in silenzio”. Perché “la vittima tipo ha chiari sospetti, ma si guarda bene dall’esternare queste idee alle forze dell’ordine”. Ecco allora una prima disarmante conclusione: “Anche in alcune aree metropolitane della civilissima capitale lombarda è assai viva una presenza che fa ombra all’autorità dello Stato”. Una linea della durezza rilanciata ieri dalla dottoressa Ilda Boccassini, capo del nuovo Pool antimafia di Milano. “L’imprenditore che non denuncia – ha detto – si mette contro lo Stato”.
La posizione della Procura è giustificata dalle oltre ducento pagine di ordinanza dove si racconta di imprenditori minacciati che scelgono il silenzio. Decisiva, quella di Salvatore Sansone che il 28 luglio 2008 si ritrovò la sua agenzia immobiliare completamente bruciata. Sentito sul posto disse: “Sappiamo chi è stato, me lo aspettavo”. Ma alle successive domande dei carabinieri, scrive il gip, “tentò subito di minimizzare negando le precedenti dichiarazioni”.
C’è di più. Le intimidazioni della ’Ndrangheta arrivano fin dentro le aule di giustizia. Durante le pause delle udienze delprocesso Cerberus contro Salvatore Barbaro, più di una volta Antonio Perre, classe ’84, boss emergente, sfuggito ieri alla cattura, ha avvicinato i teste dell’accusa per costringerli a ritrattare. Fatto poi puntualmente avvenuto, come conferma il pm Alessandra Dolci, titolare dell’indagine.
Oltre ad Antonio Perre, detto “u cainu”, agli investigatori ieri è sfuggito un altro pezzo da novanta. Si tratta di Domenico Papalia, classe ’83, figlio del boss Antonio Papalia. “Imprendibile – dice la Dolci – non dorme più di tre giorni nella stessa casa, non usa cellulari e ci ha scoperto due microspie”. Lui, che recentemente si è sposato con una ragazza legata ai clan di San Luca, è il vero referente della ’Ndrangheta al nord. E come tale dispone di una forte rete di fiancheggiatori. Attualmente è residente in via Vivaldi a Buccinasco. Bazzicarci per più di una volta significa essere affiancati da due auto, seguiti, scrutati e accompagnati fuori dal paese. In questa zona la rete mafiosa della cosca Barbaro-Papalia è tanto forte da dare appoggio anche ai latitanti. E’ il caso di Paolo Sergi di Platì trovato l’8 giugno 2008 in un appartamento in via Caduti ad Assago. In un box della stessa via, circa un mese prima, sono state scoperte diverse armi tra cui kalashnikov, fucili a canne mozze e bombe a mano. Una vera santabarbara che la cosca, capeggiata da Salvatore Barbaro e Domenico Papalia, testava nei cantieri del movimento terra. A testimoniarlo alcune intercettazioni ambientali.

di Davide Milosa, «Il Fatto quotidiano», 4 novembre 2009

martedì 10 novembre 2009

L’ordine giudiziario è un potere dello Stato

La recente riscoperta del disastro delle navi – colme di decine di migliaia di fusti di rifiuti tossici e radioattivi, provenienti dal nord Italia e dai maggiori paesi industrializzati d’Europa e d’America – affondate in varie zone a largo della penisola italiana e specialmente dinanzi alle coste calabresi ha confermato che il mezzogiorno d’Italia e il Mediterraneo sono stati condannati a diventare il centro dello sversamento di gran parte dei veleni industriali. Dopo decenni, grazie al tenace operato della magistratura, stanno finalmente riemergendo le vere responsabilità delle grandi industrie occidentali che, servendosi di spietate alleanze con mafie e apparati deviati dello Stato, accumulavano nei porti italiani gli scarti tossici dei processi di lavorazione industriale e li indirizzavano verso i paesi dell’Africa. Quando non riuscivano nel loro intento, queste squadre della morte erano costrette a riportare verso l’Italia le navi cariche di veleni che finivano per essere affondate al largo delle coste del nostro Paese, mentre i poteri criminali incassavano anche il premio di assicurazione delle navi affondate. Grazie al continuo lavoro di magistrati e giornalisti lentamente stanno riemergendo le verità sulla morte della giornalista Ilaria Alpi, uccisa in Somalia per aver scoperto il traffico di rifiuti tossici provenienti dall’Italia.
Ma il Mediterraneo non è stata l’unica rotta percorsa dai trafficanti di rifiuti: migliaia di tir gremiti di veleni hanno quotidianamente attraversato le strade dell’Italia, finendo la loro corsa scellerata nelle sue contrade più fertili, in quella che un tempo era chiamata Campania felix per la fecondità della sua terra, e nelle profonde valli della Calabria. Con quei rifiuti sono state avvelenate le colline, le valli, le campagne e le acque di tutto il mezzogiorno, e costruite le mura delle case dei cittadini che da Caserta a Crotone muoiono ogni giorno, silenziosamente, di orribili mali che mai fin’ora avevano così diffusamente colpito queste terre.
I poteri forti del nord Italia hanno tradito la loro missione industriale che consisteva nel produrre beni e servizi d’interesse generale, e accecati dal profitto hanno stretto un patto d’acciaio con mafia, camorra e ‘ndrangheta, per lo smaltimento illegale nelle regioni meridionali dei rifiuti tossici prodotti dalle loro industrie nonché provenienti dalle maggiori industrie dei paesi occidentali.
Il Presidente della Repubblica, on. Giorgio Napolitano, ha confermato che il traffico di rifiuti tossici proviene dal nord Italia con meta nelle regioni meridionali. [inserire citazione giornale] In tal modo i poteri forti non solo hanno favorito la formazione del capitale finanziario delle cosche mafiose, ma hanno assoggettato il mezzogiorno ad uno spietato sfruttamento, rifeudalizzandolo ai loro fini.
Inoltre, i poteri forti della grande finanza del nord Italia, tradendo la causa del Risorgimento e dell’unità italiana, hanno associato le mafie nella perversa e criminale attività di gestione privata delle concessioni degli appalti pubblici, un’attività d’intermediazione finanziaria che il grande economista Pasquale Saraceno ha definito la vera causa della voragine del debito pubblico. Infatti, i grandi gruppi industriali del Nord, che avevano in concessione la gestione dei fondi pubblici e degli appalti per la realizzazione delle grandi opere, hanno condotto un’immensa attività di speculazione alleandosi con le mafie e corrompendo la classe politica. Grazie all’intermediazione finanziaria i concessionari hanno potuto aumentare enormemente il costo delle opere pubbliche, la cui realizzazione è stata spesso affidata in subappalto alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, che per guadagnare hanno lavorato con materiali scadenti, senza alcuna attenzione per la sicurezza dei lavoratori, e che infine hanno sversato nei cantieri anche i rifiuti tossici. Quest’alleanza criminale non solo ha portato quindi alla devastazione dei bellissimi territori italiani e allo scempio del paesaggio, ma anche alla rapina di tutta la ricchezza nazionale e all’aumento vertiginoso del debito pubblico.
Dobbiamo ricordare che la storia ha già conosciuto e combattuto queste figure di speculatori, quando durante la Repubblica romana del II secolo a.C. prima Cesare e poi Ottaviano Augusto dovettero comprendere che il potere dei publicani stava minando l’integrità della Repubblica. I publicani, i concessionari dell’epoca, approfittarono del fatto che la Repubblica non fosse più in grado di gestire i servizi pubblici costituirono enormi società finanziarie ed ebbero la concessione della costruzione delle opere pubbliche e della loro manutenzione, nonché la gestione dei servizi pubblici. Il loro potere si era esteso in tutto l’impero, fino a diventare uno stato nello stato, e nacquero vere e proprie compagnie di imprenditori, potentissime organizzazioni capitalistiche che vennero ad avere immensa autorità in campo economico ed un’influenza politica fuori da ogni misura sia nelle provincie che nell’Urbe, e che furono la causa del collasso della Repubblica (vedi Onorato Bucci, “Le provincie orientali dell’impero romano”, pag. 260).
Questa storia serve a comprendere in modo lineare la tragedia che sta attraversando il nostro paese, e i poteri forti che lo dominano. Della distruzione dello Stato che avviene oggi per mano dei moderni publicani, i general contractor e i gestori di rifiuti, costituisce esempio significativo l’immane rapina compiuta dalle imprese che sono calate dal nord Italia e in combutta con le forze parassitarie ed illegali delle regioni meridionali e utilizzando una folla di professionisti disonesti, sono riuscite a compiere un grande sacco delle risorse statali con una legislazione subdola e perversa da loro stessi ispirata e architettata dai grandi studi legali che sanno tessere quei sistemi di leggi criminogene per mungere quella che Zanotti Bianco chiamava la “perduta gente” del mezzogiorno e le mammelle ormai rinsecchite dell’erario dello Stato, travolgendo finanche i risparmi postali dei pensionati depositati nella Cassa depositi e prestiti, ultimo forziere e succulento bottino da depredare.
La condanna a morte della Campania e del mezzogiorno, la pandemia scatenata dai veleni industriali, e le leggi perverse che stravolgono la legislazione italiana trasformando ogni norma che poteva arrestare i poteri forti della speculazione in norme che rendono pienamente legittimi gli atti già considerati illegali dalla legislazione ordinaria dello Stato, questa violenza sta spezzando l’Italia distruggendo l’Italia meridionale, terra che nei secoli ha generato uomini di cultura e di alto costume, che hanno contribuito con i loro sacrifici al Risorgimento italiano e alla formazione dello Stato unitario, ed oggi subisce la distruzione della scuola e la desertificazione della ricerca scientifica e umanistica, le cui risorse vengono prosciugate dai soliti poteri forti sotto il nome strumentale di ricerca tecnologica, tutta finalizzata ai profitti delle imprese private e alla rapina del capitale finanziario, e non per la formazione di scienziati e tecnici utili al vero progresso.
Venuti meno il sostegno e l’aiuto delle competenze professionali, ormai per la maggior parte omologate alle bande di affaristi e di consulenti disonesti, venuto meno quel costume morale prerogativa del ceto medio impoverito e ricacciato ai margini della vita sociale, l’ultima speranza per il Paese è che la magistratura si ricordi in ogni momento di essere uno dei poteri dello Stato, e che un potere dello Stato può rammentare al popolo che è suo dovere difendere la Costituzione e l’ordinamento giuridico insieme ai cittadini patrioti, e che le sentenze dei giudici sono le architravi della coscienza popolare o gli abissi di una purezza e di un rigore perduti. Aiutare i magistrati a rendersi consapevoli del loro ruolo significa difendere le tradizioni risorgimentali e lo Stato unitario contro l’anarchia costituzionale e contro il malgoverno.
C’è una fucina dove tutto si trasforma, dove si architettano e si formulano le leggi perverse riprendendo la legislazione fascista sulle opere pubbliche e compiendo ancora maggiori violazioni delle leggi fondamentali sulla contabilità dello Stato (neanche il fascismo aveva osato dare anticipazioni sul costo dei lavori, non aveva osato far pagare dai concessionari i collaudatori delle opere e non aveva mai osato assegnare le funzioni di stazione appaltante ai concessionari); c’è una fucina dove si influenza la nomina dei giudici più adatti a far arenare i processi e più inadeguati alle battaglie giudiziarie per il trionfo della verità; in questa fucina, che diventa una vera tregenda italiana governata da bande che Pasquale Saraceno definì coacervi di burocrati corrotti, di politici corrotti, di finanza corrotta associata con mafia, camorra e ‘ndrangheta con l’aiuto e la consulenza di professionalità omologate al sistema, in questa fucina ci sono forze diaboliche che riescono a sotterrare sotto cumuli di rifiuti tossici la memoria storica del nostro Paese e ad addormentare le coscienze degli scienziati meno combattivi.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione si è verificato un rimpicciolimento generale della visione nazionale, un rimpicciolimento fatto di chiusure anguste, provinciali, che non permettono più di comprendere la portata nazionale di eventi storici fondamentali per la vita di tutto il Paese. In questo rattrappimento ogni processo storico fondamentale viene rimpicciolito e ridotto al rango di fatto provinciale e regionale. In questo momento il Processo “Fibe-Impregilo” ai concessionari della gestione dei rifiuti in Campania, che cerca di puntualizzare il marciume e la spietata empietà dei veri responsabili che hanno programmato con satanica crudeltà la morte del giardino d’Europa e minato la salute della popolazione, è un processo che ha il compito di ristabilire la verità storica davanti a tutta la nazione: la Campania è stata – ed è tutt’ora – vittima dei poteri forti del nord Italia, associati con il capitale finanziario di origine mafiosa e camorrista che la storia giudicherà e condannerà per aver scatenato nel mondo una guerra contro le ignare popolazioni pacifiche, una guerra più tremenda e crudele delle orrende guerre mondiali che hanno devastato l’Europa. Se il processo dei rifiuti in Campania si chiuderà assolvendo i colpevoli di questo disastro senza far emergere queste terribili verità sarà avvenuta una falsificazione storica le cui conseguenze saranno il fardello che opprimerà le future generazioni, poiché le pagine di questo processo sono – e resteranno – un tremendo documento storico. Se questo processo si chiuderà con una sentenza inadeguata e vile farà fare un passo indietro alla coscienza di tutti i cittadini italiani e dei cittadini campani che verranno convinti di essere responsabili del disastro sanitario e ambientale e di meritare la separazione dal resto del Paese. Infatti tra le gravi colpe dei poteri forti c’è quella di aver cancellato violentemente dalla memoria della popolazione italiana e meridionale il ricordo della secolare e spontanea consuetudine della città di Napoli e della Campania alla raccolta differenziata, descritta anche dal grande poeta tedesco Goethe nel suo Viaggio in Italia. Ma la raccolta differenziata disturbava e ostacolava i padroni degli inceneritori, che vedevano la raccolta differenziata come ostacolo ai loro profitti. Sarà più lungo e difficile nel caso in cui venga rimossa la verità da una sentenza incerta o dall’infamia di una prescrizione, riprendere il cammino per i cittadini napoletani e del mezzogiorno d’Italia, che verranno riprecipitati al livello di «perduta gente» come Zanotti Bianco definì gli abitanti di queste terre che pur stavano compiendo un grande sforzo per divenire cittadini e non più abitatori.
Questo processo è un grande documento storico che non solo incide e si pone al centro dell’educazione della popolazione italiana, ma deciderà anche della rinascita o della definitiva distruzione della memoria del Risorgimento che ha coinvolto in un unico sforzo per l’unità  milioni di uomini, uno sforzo che potrà andare avanti o essere ricacciato indietro di secoli. Mascherare la memoria storica significa sotterrare nei secoli l’umanesimo, il Risorgimento e lo Stato unitario, coprendoli di nuova terra mortifera fatta di rifiuti tossici, quegli stessi rifiuti tossici che oramai ricoprono le fertili campagne italiane.
Proprio per l’enorme portata storica di questo processo è tutta la magistratura a portare su di sé un’enorme responsabilità, la responsabilità di un’alternativa: o difendere l’Italia dalle forze criminali che vogliono distruggerla o consegnare nelle loro mani il Paese. Noi stessi dobbiamo continuare a sostenere la magistratura, in cui riponiamo la nostra fiducia, e ricordare in ogni istante che questo processo ha un valore immenso per la formazione e la coscienza storica delle nuove generazioni, e che per questo la libera stampa deve occuparsi di questi grandi processi storici con fermezza e coraggio, con spirito di verità e di responsabilità, affinché un’opinione pubblica libera, matura e consapevole possa realmente partecipare alla vita del Paese e sostenere i cittadini e i magistrati che ovunque combattono per la sua salvezza.
Se in questo grande processo la verità sarà celata da una vile sentenza, e se il popolo e i cittadini onesti perderanno la coscienza storica, verrà annullata ogni conquista e ogni sforzo del Risorgimento italiano per creare l’unità dello Stato e la crescita civile delle popolazioni, si scateneranno risse tra le regioni e l’anarchia generale sul territorio, e l’Italia diventerà una mera espressione geografica.

Assise della città di Napoli e del Mezzogiorno d'Italia

sabato 7 novembre 2009

Acqua privatizzata. I rischi di una scelta

Ci sono poche notizie sui giornali e nessuna in Tv sulla privatizzazione dell’acqua. Eppure proprio in questi giorni si decide del nostro futuro. Si sta discutendo infatti in Senato la nuova legge che esclude ogni gestione pubblica delle acque. Non si tratta di un dilemma solo nostro. Tanti Paesi del mondo si stanno chiedendo, su stampa e televisione, fino a che pun to sia lecito privatizzare un bene comune, di cui tutti dovreb bero disporre. Il fatto è che l’acqua è in procinto di diventare l’oro del futuro e c’è chi pensa di guadagnarci sopra. Da qui la fretta di alcune grandi multinazionali per accaparrar si i diritti di erogazione.
Ho già scritto sull’argomento. E c’è chi mi ha risposto sostenendo che le mie preoccupazioni sono esagerate perché la proprietà delle sorgenti e delle reti resterà comunque pubblica nonostante la cessione alle ditte private. Ma il diritto all’acqua si esplica solo se questa sgorga dal rubinetto e se è potabile. Il cittadino non va con il secchio al pozzo o alla sorgente o si mette in fila all’acquedotto. Il diritto all’acqua potabile si esercita solo attraverso la gestione e l’erogazione.
In quasi tutta Europa d’altronde la privatizzazione si è bloccata o addirittura, come succede in Francia, è in atto un processo di ripubblicizzazione. La Svizzera ha dichiarato l’acqua e le reti idriche monopolio di Stato, non suscettibile di privatizzazione. Il Belgio ha fatto una legge per cui tutti i rubinetti vengono gestiti da Spa «in house», ovvero il cui pacchetto azionario è tutto in mano ai Co muni. Gli Stati Uniti rifiutano di privatizzare la gestione delle reti idriche locali che restano salde in mano ai Municipi. In tutta l’America latina poi e in atto un grande laboratorio sui beni comuni. In Uruguay, Bolivia, Ecuador e ora in Cile i parlamenti cambiano addirittura le Costituzioni per affermare tali principi. Da ricordare che in Cile la privatizzazione è avvenuta appena Pinochet è andato al potere. Oggi il governo cileno sta tornando alla proprietà pubblica.
Ma perché preoccupa tanto la gestione privata delle acque? Il fatto è che quando un bene così importante passa nelle mani dei privati, la prima conseguenza è la diminuzio ne dei controlli, la seconda è che aumentano i prezzi (è successo a Latina dove la cessione alla multinazionale Veolia ha portato all’aumento delle tariffe del 300%) e spesso vi si infila pure la mano della criminalità organizzata (cosa accaduta in Sicilia e in Calabria).
La Lega che era contraria alla privatizzazione, da ultimo ha cambiato idea. Perché? Oggi firma una legge Fitto-Calderoli che propone addirittura di fare scendere al 30% la parte cipazione dei Comuni per le società di gestione già quotate in borsa. Ai senatori e al parlamentari chiediamo che riflettano prima di approvare una legge che arricchirà le grandi aziende private (quelle piu favorite oggi sono straniere) e impoverirà le nostre amministrazioni pubbliche.

di Dacia Maraini, «Corriere della Sera», 3 novembre 2009

La riforma del gattopardo


Ogni discussione seria sulla situazione dell'università (e quindi sul Ddl Gelmini) non può che partire da un accordo preliminare sulla funzione dell'istituzione accademica. Da un paio di secoli circa, qualsiasi università degna di questo nome si basa su un presupposto semplice: l'unico fine che la formazione superiore dovrebbe servire è la conoscenza in quanto tale. Da Kant e Wilhelm von Humboldt al cardinale Henry Newman, senza dimenticare Max Weber e Karl Jaspers.
L'idea classica di università, oggi visibilmente al tramonto, ruota intorno al principio della libertà di ricerca e ad alcuni corollari: che né il potere politico, né gli interessi privati possono interferire nella ricerca e nell'educazione degli studenti, che solo gli scienziati giudicano gli scienziati, e che l'università è responsabile davanti alla società del modo in cui usa la propria libertà.

Questo è lo spirito che si respira in una vera università. Dal ruolo che tradizionalmente gli studenti svolgono di opposizione sociale e politica (dal maggio '68 sino alla Teheran d'oggi) sino alle bizzarrie in tema di abbigliamento e stile di vita dei professori, la libertà accademica è il lusso che una società sviluppata e democratica lungimirante dovrebbe concedersi facilmente, riconoscendone le ricadute positive. Che si tratti di algoritmi o di scoperte, di interpretazioni giuridiche o letterarie, di nuove cure o nuove tecnologie, ciò che l'università produce liberamente torna in forma di valore aggiunto conoscitivo, civile e culturale alla società che l'ha reso possibile.

Il privilegio accademico ha naturalmente delle contropartite. I professori devono meritare la loro posizione, e ciò significa che solo la loro capacità e produttività (da accertare in base a ciò che fanno, secondo criteri di valutazione inevitabilmente convenzionali, ma applicati universalmente) giustifica la loro posizione; devono rendere conto alla collettività non di ciò che ricercano, ma dei soldi che spendono nella ricerca e, soprattutto, hanno il dovere di rendere pubblici e trasparenti i criteri e le procedure con cui cooptano o promuovono quelli che un giorno li sostituiranno.

In altri termini, l'università può essere libera solo se è responsabile. Su questo piano, spiace dirlo, non solo i governi di centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent'anni si sono dimostrati disastrosi, ma il ceto accademico ha dato il suo efficace contributo al disastro. Farò un esempio di connivenza oggettiva. Anche i sassi sanno ormai che la riforma Berlinguer è fallita perché imposta dalle lobby accademiche che vi hanno trovato un meccanismo ideale per moltiplicare posti e poteri. Al di là delle proteste puramente verbali della Conferenza dei rettori per il taglio incessante dei fondi, tra i governi degli ultimi anni e i grandi gruppi di potere accademico c'è sempre stata una corrispondenza d'amorosi sensi.

Ma la connivenza tra baronati e ministri va oltre. Dopo la comparsa priva di tracce ed effetti di personaggi incompetenti come Moratti e Mussi, il ministro Gelmini - che probabilmente di questioni universitarie non mastica molto, ma deve avere dei consulenti che hanno obiettivi assai chiari - dà un'ulteriore sterzata dirigistica non solo imponendo a tutte le università la stessa struttura di governo, ma aumentando a dismisura il potere del rettore e conferendo la facoltà di eleggerlo ai "professori ordinari in servizio presso università italiane in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione, anche a livello internazionale, nel settore universitario, della ricerca o delle istituzioni culturali" (art 2, comma 2, capo c). In altri termini, solo un ristretto gruppo di baroni eleggerà il rettore, e poiché di norma i rettori che contano sono medici e ingegneri, chiunque capisce quali sono i gruppi di interesse, accademici e non, coinvolti nella vera "governance" dell'università.

In base ai principi della libertà e della responsabilità esposti sopra, alcuni punti del Ddl sono del tutto inaccettabili, mentre altri, sulla carta, potrebbero essere discussi. Tra i primi c'è il quaranta per cento dei posti in Consiglio di amministrazione riservati ai "privati", senza alcun vincolo di finanziamento (con che diritto i privati contribuiscono alle decisioni in materia di vita accademica se non danno contributi?). E lo stesso vale per un'agenzia di valutazione dai contorni indefinibili, ma aperta ai privati e soggetta visibilmente all'imperio del ministro. E non parliamo delle norme in materia di reclutamento. Al di là dell'"abilitazione" nazionale dei futuri docenti, che riprende idee vecchie quanto il mondo e in fondo l'antica libera docenza, la composizione delle commissioni è ovviamente macchinosa, come sempre, e si basa su un principio, il sorteggio, che sostituisce in parte il mero caso alle vecchie spartizioni nazionali. Nei settori scientifico-disciplinari organizzati, e cioè quelli che hanno un potere reale, è facile prevedere che il sorteggio non cambierà di molto le cose.

Il principio della valutazione della ricerca individuale in linea di principio è sacrosanto e non si capisce perché incontra tante resistenze a sinistra (o meglio si capisce benissimo). Chi è vecchio del mestiere sa che l'università italiana si porta dietro, a ogni livello gerarchico, una sacca di docenti i quali, ammesso che abbiano fatto ricerca da giovani, a un certo punto smettono o vivacchiano, facendosi i fatti propri o interessandosi esclusivamente dei propri micropoteri. Che i contribuenti paghino lo stipendio a simili "professori" - e non sono pochi - i quali oltretutto occupano posti che potrebbero essere riservati ai giovani è una vergogna dell'università italiana. E io non trovo nulla di scandaloso nel fatto che siano previsti incentivi per i più meritevoli, quelli che lavorano di più e meglio. Semmai, ciò che è privo di senso è i che fondi per l'incentivazione siano gestiti dal ministro dell'Economia: questo significa soltanto che il ministro detterà alla comunità accademica criteri di valutazione che saranno tutto tranne che scientifici. Quanto al fatto che tali fondi deriveranno (a parole) dal gettito del famigerato scudo di Tremonti, l'equazione tra denari illeciti e finanziamento della scienza parla da sé.

Anche i ricercatori a tempo determinato in teoria potrebbero essere accettabili (se non altro per metterli alla prova ed evitare che uno entri all'università e il suo lavoro non sia valutato mai più). Ma poiché siamo in Italia e la "riforma" è a costo zero, appare evidente che i contratti a tempo determinato sono solo nuovo precariato, oltretutto senza alcuna indicazione sugli sbocchi futuri.

A me pare che il Disegno di legge Gelmini manipoli più o meno abilmente alcuni principi che sono diventati.nel bene e nel male senso comune dell'università (valutazione, merito, efficienza ecc.). Ma ho l'impressione che il suo obiettivo sia soprattutto rafforzare l'università italiana in senso verticistico, attribuendo tutto il potere all'alleanza tra rettori, gruppi baronali e attori esterni. In realtà, nel Disegno di legge il controllo su quello che davvero fanno i professori è del tutto aleatorio e fumoso, la valutazione è una chimera e la semplificazione delle strutture al servizio di un'organizzazione più dispotica di prima ma burocratica quanto in passato.

Se si tiene conto che i finanziamenti sono in costante diminuzione e che i difetti strutturali non sono scalfiti in nulla, il risultato del disegno di legge Gelmini sarà un'università culturalmente modesta, ancor meno competitiva sulla scena internazionale e assoggettata al potere politico. Insomma, una riforma roboante ma gattopardesca nello stile della destra italiana, affinché tutto sia come prima o magari peggio.
 
Alessandro Dal Lago, «il manifesto», 6 novembre 2009