giovedì 10 dicembre 2009

La critica al neoliberismo di Noam Chomsky

“Crisi globale dell’economia”, è questa una delle espressioni più diffuse che hanno riempito le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali negli ultimi due anni. Perché? Che cosa è successo?
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti, pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi, la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri, professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti, il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la “Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo Studio di Pianificazione Politica n°23), scritto da George Kennan, capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita, le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza, libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste  linee guida, la chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”,infatti, era stato affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto da porre alla definizione  di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il 1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato ‘Parlamento Virtuale’: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di  incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[] Così in tutto il mondo,si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso spiega due fatti:
A)    il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B)    le industrie delle multinazionali americane hanno sempre sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che “egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti, le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente, come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?

di Matteo De Laurentis

lunedì 7 dicembre 2009

La legge dell'est

Nato negli anni Venti dopo la Rivoluzione d'Ottobre il sistema giuridico sovietico è stato preso a modello nella definizione dei diritti sociali di cittadinanza nei paesi del capitalismo occidentale
Nel dicembre del 1887, dopo pochi mesi di frequenza, un giovane studente di origini piccolo borghesi fu espulso dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università imperiale di Kazan in Russia. Frequentava circoli anti-zaristi. Le cose gli erano andate meglio rispetto al fratello, giustiziato poco prima per un attentato allo Zar. Il giovane, Vladimir Ilich Ulianov, era un tipo determinato. Fece domanda di riammissione a Kazan, ma la domanda venne respinta. Fece domanda per andare a studiare all'estero, ma anche questa non fu accolta. Finalmente riuscì ad iscriversi, come «studente esterno» ossia senza diritto di frequenza, all'Università di San Pietroburgo. Nel 1891, il giovane Ulianov si presentò per sostenere l'esame di avvocato. Ricevette il massimo voto in tutte le materie: l'unico candidato del suo anno a raggiungere tale eccellenza. A dispetto del brillante avvio, Ulianov non era destinato a una luminosa carriera forense.

Meno di una generazione dopo aver dimostrato di conoscere il diritto zarista meglio di tutti, Ulianov, ormai noto come Lenin, lo abolì interamente con un tratto di penna. Incominciava, circondato da inenarrabili difficoltà, un itinerario nella creazione di un nuovo ordine giuridico, il cui impatto globale continuò fino a vent'anni fa, consentendo al mondo giuridico occidentale di raggiungere lo zenith della sua civiltà.



La legalità sovietica

Non credo esista un aspirante avvocato (o notaio o magistrato) che, durante la preparazione del suo esame, non odii l'oggetto del suo studio fino al punto di desiderarne, anche solo per un momento, la sua abolizione. Né credo esista una più efficace descrizione dell'atteggiamento di un rivoluzionario rispetto al diritto di quella che si trova in Voltaire: «Volete buone leggi? Buttate tutte quelle che avete e createne delle nuove». Non molti tuttavia sanno che tale anelito diffuso (lo si ritrova tale e quale nella retorica dei primi anni della Rivoluzione Americana sbeffeggiata da Grant Gilmore) fu soddisfatto dai bolscevichi in modo più avanzato e costruttivo di quanto non sia mai riuscito a chiunque altro. Un esperimento di costruzione di una nuova giuridicità che non ha mai avuto parti per tutto il Novecento.

Mi pare risponda ad una necessità di verità storica, proprio nel periodo in cui siamo circondati da mediocre letteratura celebrativa della rivoluzione del 1989 che spunta, guarda caso, copiosa proprio in concomitanza con lo straparlare sulla fine della crisi, ripercorrere almeno per brevissimi cenni, il contributo dato all'ordine giuridico globale dai settant'anni di sviluppo della legalità socialista. Ciò non solo per finire il trittico di esperienze giuridice «altre» pubblicato su queste pagine (Il manifesto del 30 settembre e del 15 novembre), ma soprattutto per superare un'immagine della legalità socialista che ancor oggi, a vent'anni dalla fine della Guerra Fredda, risente della più becera propaganda atlantista. Infatti, durante la Guerra fredda autori come Hayek, Rostow, o Roscoe Pound e successivamente innumerevoli cantori sulla scia di Fukuyama hanno costruito un feticcio di legalità occidentale in contrapposizione con l'(il)legalità socialista.



I processi alla Lubianka

La costruzione dell'immagine dominante di legalità occidentale non passa soltanto attraverso la «mancanza» di legalità nell'altro contemporaneo, dalla Cina al mondo islamico, ma si fonda soprattutto nel rifiuto di riconoscere il contributo del socialismo realizzato alla nostra stessa esperienza giuridica, quindi attraverso un diniego dell'esperienza storica realizzata non soltanto in Unione Sovietica ma anche da noi in passato. Parlando nel 1990, Bush padre dichiarava che, «con l'Unione Sovietica finalmente scomparsa», gli Stati Uniti avrebbero «costruito un mondo in cui il regime di legalità avrebbe sostituito la legge della giungla, un mondo in cui le nazioni riconoscono le responsabilità condivise per la libertà e la giustizia, un mondo dove il più forte rispetta il diritto del più debole».

Si tratta adesso di far finalmente giustizia di questa idea della legalità socialista come «legge della giungla» accompagnata da truculente immagini di processi sommari condotti alla Lubianka, o nella periferia Africana dal Negus rosso durante il terrore del Derg. È chiaro che ci si incammina su una strada non facile perché quello che ci interessa è proprio ristabilire il contributo del socialismo realizzato (con stalinismo e tutto il resto) alla legalità internazionale e non il contributo di civiltà dell'ideale socialista, il che è tanto più facile e scontato quanto meno interessante. In effetti non è sufficiente cimentarsi sulla tragica diatriba degli anni trenta che costò la vita a Evgeny Pashukanis, autore di un fondamentale The General Theory of Law and Marxism, caduto in disgrazia a seguito della polemica con il grande inquisitore Andrey Vishinsky, sulla sparizione necessaria o meno del diritto (e quindi sul suo ruolo e su quello dello Stato) nella transizione fra il socialismo e il comunismo.

Voglio piuttosto mostrare come le idee giuridiche di Lenin abbiano portato ad una riscrittura incredibilmnte avanzata del diritto nuovo, promulgando leggi volte finalmente alla liberazione e non all'oppressione. Mi sembra che specchiarsi in questo diritto abbia obbligato il capitalismo a trasformare profondamente le proprie istituzioni giuridiche di sfruttamento economico in direzione più inclusiva e rispettosa della persona. È ovvio che la diversa narrativa che intendo proporre condivide l'analisi e la valutazione di Angelo d'Orsi sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino sulla civiltà giuridica, il che ci obbliga oggi ad un immane sforzo ricostruttivo perchè il capitalismo non ha più incentivi internazionali a mostrare un volto civile.



Una costituzione da studiare

La legislazione bolscevica iniziò fin dal 1917 a farsi carico delle condizioni della popolazione sovietica. Lenin sognava un sistema fondato sul diritto ad un tetto sulla testa, a cure mediche gratuite e ad un lavoro. Nessun governo nella storia si era mai prima fatto carico di simili responsabilità sociali. Prima degli anni Venti, quando ancora l'industrializzazione era lontana, la legge garantì il posto di lavoro in un momento storico in cui in Occidente il padrone poteva licenziare il lavoratore in qualunque momento. I lavoratori sovietici avevano diritto all'assicurazione medica a spese del datore di lavoro, a benefici in caso di inabilità al lavoro, a periodi significativi di riposo retribuito durante la malattia. La giornata lavorativa ricevette un limite di otto ore per sei giorni la settimana (ridotte a 7 nel 1928) quando ancora negli Stati Uniti era incostituzionale limitare per legge l'orario di lavoro per i fanciulli. Si andava in pensione dai lavori usuranti a 50 anni, e si istituirono scuole di formazione permanente, gratuite, in cui i lavoratori potessero conseguire titoli medi e superiori. Nacque il quei primissimi anni la contrattazione collettiva di lavoro e furono istituite forme di democrazia industriale. Un sostenuto programma di nazionalizzazioni rese effettivi questi diritti, soprattutto quello all'impiego. Durante la crisi del '29 quando la disoccupazione raggiunse cifre da capogiro in Occidente, l'economia sovietica vantava livelli occupazionali altissimi.

Le donne ricevettero un livello di protezione giuridica che altrove fu raggiunta, quando raggiunta, mezzo secolo più tardi. Per esempio, alle madri sole con figli a carico fu garantito trattamento preferenziale, impiego vicino casa, e asili gratuiti di supporto. Tutti questi diritti, inclusi quelli alla pari retribuzione fra i generi, vennero costituzionalizzati per la prima volta da Stalin nel '36. Già dal '17 si cercò di rendere effettivo il diritto ala casa mediante moratoria sugli affitti e, poco dopo, equo canone. Le industrie dovevano offrire casa ai lavoratori. Dal 1921 nelle case nazionalizzate il lavoratore non doveva pagare né affitto né spese. Impressonanti programmi di edilizia pubblica risolsero, seppur in maniera insoddisfacente, il problema della casa già con l'industrializazione degli anni Trenta.



Lo scontento del quarto stato

I progressi rispetto alla legislazione occidentale furono altrettanto significativi in altri settori: l'eguaglianza fra gli sposi, il divorzio e l'aborto, introdotti senza restrizioni già nel 1917. Le donne avevano il diritto ad assentarsi per maternità conservando il posto di lavoro. Già dal 1918 oltre mezzo secolo prima che in Italia i bambini nati fuori dal matrimonio si videro riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. Nel diritto penale Lenin si sforzò di rendere effettivo il principio di rieducazone dovuto alla concezione del crimine come prodotto delle condizioni sociali. Le pene furono radicalmete ridotte, il carcere sostituito da campi di rieducazione in cui si poteva imparare un lavoro. L'eutanasia fu depenalizzata e così la sodomia fin dal 1920. Importanti programmi, informati alla tutela dei diritti delle lavoratrici del sesso, vennero istituiti per risolvere il problema della prostituzione. Nel diritto internazionale il governo sovietico denunciò la prassi dei trattati segreti pubbicandone oltre 100 conclusi dallo Zar ai danni dei più varii popoli. Nel 1919 il governo bolscevico rinunciò a tutti i suoi privilegi internazionali comprese capitolazioni e extraterritorialità di cui godeva in Persia, Cina, Afghanistan e Turchia.

Questo insieme di legge nazionali gettarono nel panico le Cancellerie occidentali alle prese con lo scontento del quarto stato. La risposta a questo stato di cose generò una trasformazione giuridica che sembrava definitive anche in Italia ancora quando, nei primi anni Ottanta, frequentavo la facoltà di Giurisprudenza da studente (statuto lavoratori, equo canone, legge sulla casa). Subito dopo la conferenza di Versailles, nel primo dopoguerra, nacque l'Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) e il modello sovietico ispirò gli aspetti più sociali delle Costituzioni del secondo dopoguerra, nonché gli aspetti che oggi sembrano più utopistici della Carta delle Nazioni Unite e della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo. La legislazione sovietica guidò la trasformazione nella concezione occidentale del diritto internazionale (inclusa la decolonizzazione), del diritto di famiglia, del diritto penale, del diritto contrattuale, di quello di proprietà e perfino della desegregazione razziale negli Stati Uniti. Nell'Occidente capitalista il rapporto fra diritto privato e diritto pubblico uscì sconvolto a favore di quest'ultimo. Con il muro di Berlino e con l'epurazione dei giuristi della Germania Est che seguì l'unificazione, caddero non soltanto un ideale ma l'anelito all'incusione sociale tramite il diritto che sopravviveva nella Repubblica democratica tedesca.

Senza incentivi esterni, in nome della flessibilità, dell'efficienza e del mercato siamo tornati all'autoritarismo bigotto dei padroni delle miniere, che esportiamo sotto la voce democrazia.

di Ugo Mattei, «il manifesto», 5 dicembre 2009

Un mondo di lacrime e sangue

È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che laborsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.

Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?

La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?

Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?

Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?

L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.

L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?

Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».

Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.

Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?

Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.

Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.

Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.

Di Cosma Orsi, «il manifesto», 25 novembre 2009

La sinistra europea senza idee né progetti

Il socialismo europeo sta attraversando una crisi profonda. Se lasciamo da parte le socialdemocrazie dei pae si scandinavi, dove la conlittualità sociale è meno acuta, e i neonati partiti socialisti dell’Europa dell’est, possiamo constatare che negli altri casi – Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia – i partiti socialisti vivono un periodo di grandi diicoltà. L’unica eccezione è la Spagna. In Francia la crisi è cominciata nel 2000 con il fallimento dell’esperimento della “sinistra plurale”. Alle politiche per il rilancio dell’economia del 1997 è seguita una linea più liberista a partire dal 1999. Lionel Jospin, allora leader socialista e primo ministro, è stato il simbolo di questo cambiamento di rotta. Quando la multinazionale all’aumento dell’astensionismo elettorale. In Gran Bretagna il simbolo del fallimento del New Labour è stata l’uscita di scena del suo ideatore, Tony Blair. A conti fatti, la tanto celebrata terza via non è stata altro che una riproposizione, più edulcorata e ammiccante, del thatcherismo, basato sullo smantellamento dei servizi pubblici e sulle privatizzazioni. Oggi il Partito laburista è in caduta libera. Durante l’ultimo congresso il leader Gordon Brown ha proposto un welfare state alternativo, fondato su un “nuovo modello economico, sociale e politico” e sulla “regolamentazione del mercato”. Ma non ha speciicato da dove dovrebbero arrivare le risorse per inanziare il suo progetto e non ha chiarito come intende convincere le classi medie, che chiedono più stato sociale e meno tasse allo stesso tempo. La Gran Bretagna non fa parte della zona euro e perciò ha più libertà nella gestione del debito pubblico e del deicit di bilancio, che hanno toccato rispettivamente l’80 e il 12,4 per cento del pil. Ma il numero dei disoccupati, che sono già tre milioni, è destinato ad aumentare: senza incentivi iscali e senza nuovi aumenti della spesa pubblica sembra impossibile salvare i posti di lavoro. Da Roma a Berlino In Italia la sinistra socialista si è disgregata negli anni novanta ed è stata risucchiata in un buco nero. La nascita del Pd, con l’alleanza tra ex comunisti e parte della Democrazia cristiana, ha avuto due conseguenze negative: la scomparsa del socialismo, inteso come progetto politico e ideologico, e la creazione di un ampio bacino elettorale per il populismo reazionario di Silvio Berlusconi. L’attuale crisi del berlusconismo più che giovare alla sinistra sta mettendo in evidenza la sua debolezza. In Germania il Partito socialdemocratico (Spd) è in crisi dal 2000, quando uno dei suoi leader, Oskar Lafontaine, riiutò di appoggiare la svolta liberista di Gerhard Schröder. Nel 2005 l’Spd ha perso le elezioni e ha accettato di formare un governo di coalizione con i cristianodemocratici Internazionale 823
27 novembre 2009 19 (Cdu). Abituati a tessere alleanze con la destra, i socialdemocratici non hanno saputo proporre soluzioni credibili di fronte alla crisi e oggi sono il partito della sinistra europea in maggiore diicoltà. Oltre a subire la spaccatura voluta da Lafontaine, fondatore del partito di sinistra Die Linke, dal 1998 l’Spd ha perso circa dieci milioni di voti, anche a favore di verdi, liberali e cristianodemocratici, e la recente elezione alla presidenza di Sigmar Gabriel, un centrista senza un proilo ideologico deinito, non sembra suiciente a cambiare le cose. Un nuovo welfare Questa breve panoramica ci permette di individuare alcune tendenze di fondo. Prima di tutto i partiti socialisti occidentali negli anni novanta hanno accettato di adattarsi alla globalizzazione, scegliendo la cosiddetta terza via: non solo non hanno oferto un progetto alternativo al loro elettorato tradizionale (le classi medie e popolari), ma non hanno nemmeno compreso tutte le conseguenze della loro scelta. In questo modo sono diventati più aidabili dal punto di vista governativo, ma hanno smarrito gran parte della loro identità. Da qui deriva il paradosso attuale: i partiti socialisti sono travolti dalla crisi del liberalismo, mentre la destra liberale non esita ad applicare le ricette tradizionali del welfare per afrontare la recessione. In altri termini la destra si sta dimostrando più pragmatica della sinistra che, abbandonate le idee socialiste, si è ciecamente aidata alle virtù del social-liberismo. In Europa occidentale, inoltre, le forze di sinistra sono incapaci di reagire di fronte allo spostamento a destra della società: un fenomeno che è il risultato dell’instabilità creata dalla deregulation economica e sociale degli ultimi anni e che si traduce in una forte domanda di sicurezza (sociale, economica e identitaria) e in un ritorno al nazionalismo. Queste due tendenze di fondo, presenti ovunque in Europa, mettono a nudo la grave crisi d’identità della socialdemocrazia, ormai priva di un progetto speciico. In questi ultimi 15 anni la vittoria del liberismo non è stata solo economica, è stata soprattutto ideologica e culturale. La sinistra non sembra avere più gli strumenti, i metodi o la visione per interpretare il mondo e per agire. E ha sempre maggiore diicoltà a diferenziarsi dalla destra. Questa mancanza di progetti e idee viene mascherata da una retorica fondata sulla difesa dei suoi valori tradizionali: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà e la tolleranza. Il punto è che i partiti socialisti sembrano ricordarsi dell’importanza di questi valori solo quando sono all’opposizione per dimenticarsene quando vanno al governo. I socialisti europei si trovano di fronte a un bivio cruciale: o mettono a punto un progetto credibile o sono destinati a scomparire lentamente. Che fare di fronte alla crisi della globalizzazione? Come reagire al riiuto degli europei nei confronti del liberismo? Come afrontare la delusione e lo scetticismo delle classi popolari e medie? La nascita di un nuovo welfare europeo, oggi più necessario che mai, dipende dalle risposte che la sinistra europea riuscirà a dare a queste domande. s b



L’AUTORE Sami Naïr è un politologo francese di origine algerina. Insegna all’università Paris VIII e collabora con diversi giornali europei, tra cui El País e Libération.



di Sami Naïr, «El País», Spagna da «L'Internazionale»