domenica 20 giugno 2010

LA MAREA NERA E L'ECONOMIA DEI DOGMI di Mario Pirani

L'economia non possiede regole eterne. È accaduto, peraltro, in diverse fasi della storia, che milioni di uomini abbiano creduto nella loro immutabile valenza, tanto da farne articolo di fede. Quando ciò è avvenuto ne sono spesso derivati sconquassi catastrofici. Questa riflessione, di cui sono convinto da tempo, in particolare dopo il crollo del comunismo, mi ha stimolato qualche suggerimento in seguito alla lettura di due articoli di grande interesse, l' uno sul nostro giornale (6 giugno) di Joaquìn Navarro-Valls ("La marea nera e i falsi ambientalisti"), l' altro ("Corriere" del 6 giugno) di Claudio Magris su "I limiti (e i pregi) del capitalismo". La tesi del primo asserisce che il più enorme disastro ecologico mai avvenuto, quello del Golfo del Messico, è riconducibile ad «un sistema economico, il quale inevitabilmente potrebbe portare in futuro qualsiasi Paese a trovarsi in situazioni simili... la marea nera è il simbolo epocale dell' impotenza della politica... quando la più consolidata democrazia del mondo si trova inerte davanti alla onnipotenza delle multinazionali... il problema ecologico, insieme alle molte altre questioni cruciali... non può essere il vessillo di movimenti minoritari... l'alternativa è quanto mai chiara. O gli organismi internazionali, preposti alla elaborazione di regole valide per tutti, saranno in grado di stilare una tavola dei principi etici che devono indirizzare ovunque i comportamenti di tutti gli operatori economici oppure ci troveremo sempre davanti a democrazie fragili che non riescono a vincere la tendenza sovrana degli interessi globalizzati delle grandi corporation». Se il richiamo all' etica è in sé condivisibile, l' analisi di Navarro-Valls ne oltrepassa, però, il perimetro e indica nel venir meno della politica nella sua funzione di difesa degli interessi generali dell' umanità, il punto di rottura degli equilibri che ne assicurano un grado accettabile e vitale di convivenza. Questo venir meno della politica si verifica nella sua sopravvenuta incapacità di elaboraree imporre regole ai macro-fenomeni insorgenti e dilaganti con dinamiche assolutamente anarchiche. Per questo la marea nera del Golfo è assimilabile alla crisi finanziaria che dopo aver terremotato gli Stati Uniti rischia ora di far saltare l' euro. L' equazione è la stessa: dato un macro fenomeno sia esso ambientale, economico o altro, se la politica non riesce a monitorarlo e ad ordinarlo a monte, presto o tardi la sregolatezza delle pulsioni provoca deflagrazioni ingovernabili. Fino a qualche decennio fa non era così. Le regole che il mondo libero si era dato nel periodo post bellico assicuravano un progressivo benessere senza eccessivi traumi alle economie di mercato, temperate dal Welfare socialdemocratico. Il mondo del "socialismo reale" da Berlino a Vladivostok, pur soggetto a una dittatura che invadeva ogni spazio individuale e collettivo, appariva in lenta marcia verso un relativo miglioramento materiale, tramite una pianificazione pesante e burocratica, purtuttavia esente da crisi apparenti, grazie all' ammortizzatore dei bassi consumi. Malgrado la relativa modestia dei risultati, malgrado la violenza coercitiva del regime, malgrado l' emergere di uno spirito di rivolta che si sarebbe inverato in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia milioni e milioni di persone continuarono nel mondoa credere nella validità di un modello che aveva abolito lo sfruttamento capitalistico e prometteva in un futuro, più o meno prossimo, di richiedere da ognuno secondo le sue capacità e di dare a ciascuno secondoi suoi bisogni. Il più grande e prolungato esperimento dell' uomo di pianificare e costruire la propria storia con i metodi "scientifici" di una allucinata razionalità, minuziosamente regolata, si concludeva con l' auto disfacimento che si estendeva dal centro dell' impero alle province marginali, senza bisogno di interventi esterni. La via d' uscita, più strabiliante per la sua originalità, fu quella cinese, spietata nell' abbandono dei dogmi economici fondativi, sancita già nel 1981 dal comitato centrale, in anticipo sulla caduta del Muro, con una diagnosi impietosa sulla gestione di Mao: «Ha commesso errori di enorme portata e lunga durata... ha confuso ciò che era giusto con ciò che invece era sbagliato e ha scambiato il popolo con il nemico. In questo consiste la sua tragedia». Una sentenza che si attaglia a tutta l' esperienza comunista. Dal confronto risultò il trionfo mondiale dell' economia di mercato. Ad accentuare il suo prevalere concorse il susseguentee prolungato declino del modello social democratico in seguito alla crisi fiscale che ne rivelò l' onere economico crescente, una ipertrofia burocratica, una estensione troppo generalizzata i cui costi globali erano destinati a gonfiare in modo esorbitante il debito pubblico. Anche da questo versante sembrò venire un concorso convincente al prevalere di una contro-ideologia, opposta al pensiero socialista, sia di marca sovietica che riformista, una contro-ideologia capace però, anch' essa, di convincere milioni di persone del principio secondo cui più il mercato è libero, più il mondo è messo in grado di arricchirsi, di crescere, di godere di nuove scoperte e innovazioni, di far vivere meglio i cittadini, di colmare le diseguaglianze. Queste premesse-promesse s' inverarono in misura notevolissima per alcuni decenni, a cavallo del secondo millennio facilitate dal loro coincidere con la rivoluzione informatica che ne moltiplicava in modo esponenziale gli effetti. Si può persino affermare che la creazione inventiva di nuovi strumenti finanziari ha facilitato l' impressionante decollo di molti di quei paesi, un tempo denominati "in via di sviluppo": dalla Cina all' India, dal Brasile alla Corea del Sud, ormai in diretto confronto concorrenziale con le economie del primo mondo. In questa situazione il pensiero di sinistra non poteva che assorbire la sindrome del perdente, deprivato dei valori spendibili, afono di fronte ad un universo che non riusciva più a spiegare né, tanto meno, a interpretare. Per contro nel largo schieramento vincente l' ideologia del libero mercato finiva per far propria la presunzione dogmatica, tipica un tempo del comunismo: il pensiero unico assumeva una perennità esente da ogni prova, dopo la catastrofe delle pianificazioni socialiste in ogni loro variante. L' incapacità di una riflessione storicistica intrisa di relativismo, che permettesse di cogliere la natura degli enormi vantaggi del mercato ma anche la perigliosità catastrofica del suo anarchico dispiegarsi al di fuori di ogni regola, ha fatto sì che non si avvertissero le potenzialità devastanti di una creazione illimitata di strumenti di speculazione finanziaria, completamente avulsi dalla loro rispondenza alla creazione di ricchezze reali derivanti dalla produzione di beni e servizi. Altrettanto affetti da una lobotomia della ragione si sono rivelati governi, parlamenti, partiti e sindacati di fronte alla crescita sconsiderata dell' indebitamento pubblico, quasi vi fosse un salvatore nascosto di ultima istanza in grado alla fine di saldare il conto. Di fronte alla crisi impaurente che ci sovrasta, le ricette, soprattutto quelle europee, sembrano in partenza inefficaci, in parte dannose, soprattutto non risolutive. Anche le risposte e le proteste si dimostrano scontate e scarsamente coinvolgenti, soprattutto perché chi le promuove non si fa carico del pericolo, illudendosi di evitarne gli effetti. Eppure non ci sarà via d' uscita senza un nuovo pensiero economico che rifiuti in partenza di farsi dogma, ma si proponga, almeno per l' immediato futuro, di andare contro corrente, rifiuti la logica dello sviluppo ad oltranza per sussumere quella dello "sviluppo ragionevole e compatibile", misurabile nelle sue dimensioni e nei suoi effetti (ci sono 3000 pozzi nel Golfo del Messico, egualmente pericolosi a quello che è scoppiato, ma a nessuno è venuto in mente quale sarebbe il corrispettivo di spesa in termini di risparmio energetico). Occorre ripristinare il principio della priorità della politica sulla libera e anarchica scelta della banca e della finanza. Urge l' esigenza di riaprire una grande battaglia culturale perché non passino senza risposta diagnosi riduttive di ciò che sta accadendo. Ad esempio è ciò che colgo in una lettera aperta di Franco Debenedetti ed alcuni altri stimatissimi economisti "in difesa del mercato e degli operatori", in cui è detto: «Sostenere che sia il mercato e non chi ne abusa, a produrre opacità e instabilità, è una mistificazione». Nella mia pochezza accademica mi permetto di contestare questa affermazione: la speculazione può mettere in pericolo il mondo intero perché il meccanismo virtuoso del mercato, nell' era della globalizzazione, si è avvitato in dinamiche imprevedibili, fuori da ogni regola, controllo, capacità di freno, dissociate, anzi prevaricanti, su ogni potere politico. Non si tratta di reinventare il socialismo, anche se la sinistra avrebbe molto da dire, ma per riprendere Claudio Magris in un bella recensione ad uno scritto di Giovanni Bazoli, che abbiamo citato all' inizio, di riscoprire le regole, «quei meccanismi generali e freddi, necessari alla società civile affinché ognuno, rispettandoli e venendone tutelato, possa vivere serenamente la sua calda vita, come la chiamava Saba».

La Repubblica 17 giugno 2010

La globalizzazione dell'operaio di Luciano Gallino

È POSSIBILE che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L'industria mondiale dell'auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente. AFARNE le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un'auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all'assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all'ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato. Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano - ben 15.000 se si conta l'indotto - è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l'azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta. Una volta riconosciuto che forse l'azienda non ha alternative, e non ce l'hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti. Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L'ultima mezz'ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L'azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all'anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l'orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzionea seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell'autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz'oraa fine turno - giusto quella della refezione - o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l'indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat. Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro." Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l'analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c'è l'uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l'adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale"). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un'azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall'altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L'ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot. È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell'ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s'intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello. È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l'anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

La Repubblica 14 giugno 2010

martedì 12 gennaio 2010

La crisi economica e l'importanza degli studi umanistici

Sul finire del 2008, in visita alla London School of Economics, la Regina Elisabetta si rivolse ai più grandi economisti del Regno Unito chiedendo loro come mai soltanto pochi esperti avessero previsto la disastrosa crisi finanziaria che con violenza si è abbattuta sull’economia mondiale da due anni e mezzo a questa parte. Soltanto dieci autorevoli studiosi di economia politica inglesi, dopo cinquanta giorni, riuscirono a trovare una risposta per la Regina scrivendo che una delle ragioni principali dell'incapacità degli economisti della nostra epoca di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è da ricercare in una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: la scienza economica, relegando ad un ruolo marginale la storia economica, la filosofia e la psicologia e basandosi unicamente sul dogma dell’infallibilità del mercato sembra essere diventata, dunque, una branca delle matematiche applicate. Questi “scolastici del libero mercato”, acerrimi nemici dello Stato e della nazionalizzazione delle industrie, hanno ignorato per anni gli innumerevoli avvertimenti, provenienti dalle poche voci fuori dal coro, sulla pericolosa instabilità del sistema finanziario globale. Sostiene giustamente l’economista Lunghini («il manifesto», 18 novembre 2009) che «c'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza – l'orgogliosa consapevolezza – della dimensione politica dell'analisi economica». Ma tutto ciò è venuto colpevolmente a mancare negli ultimi decenni dove, invece, hanno prevalso analisi economiche basate su modelli matematici che, com’è purtroppo sotto gli occhi di tutti, si sono dimostrati del tutto incapaci di prevedere l’imminente disastro (la Lehman Brothers, per esempio, è fallita nonostante il suo nutrito staff di esperti economisti). Non c’è poi tanto da stupirsi, come sostiene l’economista Katia Caldari («il manifesto», 22 novembre 2009), se soltanto si pensa che già l'economista inglese Alfred Marshall sosteneva che la scienza economica riguarda l'uomo «di carne e di sangue», il quale non può assolutamente «scegliere e agire solo sulla base del calcolo dell'interesse personale; l'economia quindi non è riducibile a puro calcolo matematico e non è – né può essere – una scienza esatta, al pari della fisica. È una scienza inesatta che ha che fare con una materia molto complessa e aleatoria. Affidare la comprensione o previsione del futuro a un modello basato su una lunga lista di assunzioni irrealistiche non può che portare a delusioni».
Una deriva tecnicista, quella degli studi economici, che significa, come sostiene l’economista Becattini («il manifesto», 25 novembre 2009), una rinuncia o, se si vuole, una vera e propria negazione del compito principale dell'economista, che è quello «di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui “l'economia di mercato”, come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il “grande spreco” del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo “civilizzato”, questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato».
Il 4 gennaio 2010 è apparsa sul «Financial Times» una nuova ed aspra denuncia del fallimento formativo delle cosiddette business school, incapaci di prevedere la portata catastrofica della grande depressione economica in cui è precipitata l’economia mondiale. Il problema cruciale che la crisi finanziaria ha disvelato risiede, secondo l'articolista, nell'inadeguata formazione offerta dalle business school. Istituzioni che dovrebbero formare dirigenti di imprese e di istituzioni finanziarie ed economiche e che, per questo motivo, non dovrebbero soltanto curare il profilo tecnico e professionale dei propri allievi, ma anche e soprattutto ispirare alti valori etici a coloro che diventeranno una parte importante della futura classe dirigente. Sembra proprio che queste grandi scuole abbiano miseramente fallito poiché l’attuale classe dirigente, si afferma con decisione nell’articolo, non si cura affatto di perseguire, in maniera non egoistica ma disinteressata, l’interesse generale come invece dovrebbe se avesse piena coscienza di decidere la sorte, in alcuni casi, di miliardi di persone.
A questo proposito è giusto riportare la riflessione del prof. Giulio Sapelli che, in un articolo apparso sul «Corriere Economia» dell’11 gennaio 2010, ricorda come un testo classico sull'educazione della classe dirigente degli affari (dei sociologi Seymour Martin Lipset e di David Riesman, Education and Politics at Harvard: Two Essays Prepared for the Carnegie Commission on higher Education, 1975) mettesse in luce l’incapacità sostanziale dell’Università di Harvard di formare classi dirigenti poiché si era troppo insistito sull'istruzione specialistica e tecnica e non sull’educazione, sulla formazione del carattere, sulla formazione umanistica. Ma questo studio è stato coerentemente e pervicacemente rimosso dalle classi dirigenti americane tutte intente, invece, a lanciare l’intero Occidente verso una devastante euforia dei consumi e del benessere materiale, del progresso tecnologico e della riduzione del costo del lavoro, relegando la filosofia e la formazione umanistica, che pure in anni migliori avevano ispirato grandi imprese capitalistiche alla responsabilità sociale e alla produzione di beni e servizi, all’ultimo posto tra le discipline di studio, trasformando, in questo modo, irrimediabilmente il già troppo ristretto ceto finanziario (si tratta, come ha illustrato Luciano Gallino, di 120 mila persone al massimo, «una cifra che corrisponde sì e no alla popolazione d'un quartiere in una città di medie dimensioni» [Con i soldi degli altri p. 47]) che domina il mondo e ne decide le sorti in una cricca di briganti che, senza alcun rispetto per la dignità umana e senza alcuna cultura, sono pronti a tutto – delocalizzazioni delle imprese e licenziamenti in massa, improprie diversificazioni della produzione, costruzione di opere pubbliche dal catastrofico impatto ambientale, smaltimento criminale di rifiuti tossici, assalto ai servizi pubblici come l’acqua per imporre tasse esose ed insostenibili – pur di rispondere alle logiche del profitto finanziario e borsistico. L'egemonia culturale di questo pensiero, tutto basato su logiche di calcolo e di profitto ed indifferente al pubblico interesse e ai modi di realizzarlo, ha generato e continua a generare un particolare e sempre più diffuso tipo umano plasmato e atrofizzato nella personalità – impedita della sua possibilità di espansione e nella creatività – dal lavoro mercificato, dal piatto dominio della tecnologia sulle intelligenze e dall'«introiezione dell'obbligo di consumare» (L. Gallino, Con i soldi degli altri).
Qual è, poi, l’effetto materiale dalle più gravi conseguenze che questa idea di economia e di società ha causato?
Se da una parte è in corso una graduale scomparsa dello spirito pubblico ed una progressiva disintegrazione dello Stato e della funzione pubblica, delle istituzioni e delle amministrazioni, che rimanda a tempi oscuri della storia, dall’altra questo processo risulta dirompente nel mondo delle imprese e costituisce una delle ragioni principali dell’attuale crisi economica e delle sue conseguenze. Negli ultimi anni, l’impresa ha perso la funzione sociale legata alla produzione di beni e servizi concentrando la sua attività sull’ottimizzazione dei profitti nel più breve tempo possibile, al fine di massimizzare il guadagno dell’azionista e senza accollarsi alcun rischio d’impresa, come prevede il codice civile. Il ruolo dell’impresa risulta, dunque, distorto; essa viene finanziarizzata, socialmente deresponsabilizzata e funzionalizzata al profitto degli azionisti (a questo proposito sono importanti gli studi di L. Gallino: La scomparsa dell’Italia industriale, L’impresa irresponsabile, Con i soldi degli altri). Data questa impostazione, l’impresa non risulta più un organismo sociale con lo scopo di creare valore reale per un paese ma soltanto uno strumento di profitto – guidato dagli investitori istituzionali o operatori di borsa senza alcuno scrupolo né tantomeno alcuna responsabilità sociale che, invece, almeno in teoria hanno i manager super pagati – in cui tutte le parti possono essere sostituite in qualsiasi momento: dagli operai alla stessa produzione o alla localizzazione dell’impresa. Le ragioni di queste scelte sono sempre unicamente legate a motivi finanziari e non rispondono ad una coerenza logica o ad una precisa idea di impresa e di programmazione della produzione industriale. Queste arbitrarie scelte aziendali possono variare anche in modo repentino senza tener conto delle conseguenze ambientali e sociali spesso di grave rilevanza. Tutto questo provoca conseguenze devastanti nel tessuto sociale poiché se le Università non educano e non formano il carattere e non creano una profonda coscienza storica negli studenti non si potranno avere professionisti (scienziati, ricercatori, medici, avvocati, architetti, ingegneri…) pienamente consapevoli della loro funzione sociale, ma individui pronti soltanto a seguire le logiche, anche le più spietate, che portano soldi e garantiscono la carriera; un discorso simile di conseguenza sarà, purtroppo, valido anche per la classe politica. Questo è un aspetto che va sottolineato se è vero che «far crescere menti con aspirazioni e facoltà che si elevano dalla massa, capaci di guidare i compatrioti verso le alte vette della virtù, dell'intelligenza e del benessere comune: sono questi i fini per cui si auspicano università ben equipaggiate, i fini che tutte le università ben equipaggiate professano di perseguire. Grande è il disonore se, una volta intrapreso tale compito e attribuitosi il merito di realizzarlo, esse in realtà lo lasciano incompiuto» (John Stuart Mill).
Questo pensiero dominante, se si osservano le tendenze delle politiche mondiali operate dalle grandi corporations in materia di armi di distruzione di massa, farmaci e generi alimentari, può soltanto portarci alla guerra… una guerra che, in realtà, perderemo tutti se la dignità dell’uomo, del suo infinito spirito di creazione e della sua storia non riusciranno a farsi giustizia degli spiriti animali e dell’habendi rabies di un ceto di questo ristretto ceto di rapinatori che domina il pianeta. Non si potranno ignorare ancora a lungo, infatti, questioni vitali come il riscaldamento climatico, lo sfruttamento intensivo delle miniere e l’inquinamento delle falde acquifere e della terra – con conseguenze terribili per la salute umana – causate da un processo industriale criminale e dedito unicamente al profitto e allo sfruttamento distruttivo e sconsiderato delle risorse naturali ed umane «con la complicità e il permesso dei governi dove queste imprese operano. Il Mahatma Gandhi con la sua saggezza e la sua esperienza diceva che: “La Terra offre risorse sufficienti per i bisogni di tutti ma non per l’avidità di alcuni”» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «l’Unità», 18 novembre 2009). «Diceva Albert Einstein: “Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana”. Ma si dovrebbe aggiungerne una terza: la crudeltà di cui sono capaci gli uomini» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «la Repubblica», 31 dicembre 2008).
È un discorso che potrebbe sembrare apocalittico se non si considera che mentre vi sono nel mondo pochi milioni di individui che guadagnano oltre 1000 dollari l'ora vi è un miliardo di persone (un sesto dell'umanità [cito i rapporti Fao e Onu 2009]) che non ha accesso al cibo e all’acqua e 2,6 miliardi di persone prive di servizi igienico-sanitari di base; un discorso che potrebbe sembrare assurdo se non si riflette sul fatto che in Italia il 10% delle famiglie ricche possiede il 50% della ricchezza nazionale; un discorso che potrebbe sembrare esagerato se non si pensa che in una città come Milano, mentre in Italia vi sono 3 milioni di persone che hanno soltanto 50 euro al mese per mangiare, si buttano 180 quintali di pane al giorno; un discorso inaccettabile nel secolo XXI se non si osserva come nel nostro Paese, dove il diritto al lavoro e il massimo rispetto per chi lavora dovrebbero essere al primo posto, vi sono immigrati clandestini che si spaccano la schiena nelle nostre campagne, per 14 ore al giorno, ricevendo la miseria di 20 euro al giorno con una tassa di 5 euro al “caporale” che li fa lavorare.
Un discorso che potrebbe sembrare apocalittico, assurdo, esagerato, inaccettabile, ma, forse, non più della realtà che cerca velleitariamente di raccontare.

Antonio Polichetti