sabato 21 novembre 2009

Il mondo ostaggio dei rentiers

La crisi economica, questa nostra sconosciuta. Viene presentata così l'attuale recessione, alternando la previsione di una uscita ravvicinata da essa a una lettura che indica nella lunga durata la sua dimensione temporale. Allo stesso tempo l'oscillazione tra le speranze, da parte della teoria economica mainstream, di uscirne fuori in continuità con il passato e la convinzione che «niente sarà come prima» segna la discussione pubblica. Con l'intervista a Giorgio Lunghini inizia una ricognizione su come autorevole economisti italiani affrontono la natura della crisi attuale. Studioso noto ai lettori de «il manifesto», Lunghini propone di leggere la crisi sia in una prospettiva storica che di analisi critica del capitalismo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Un sistema economico capitalistico - un'economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes - è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali e elementi monetari c'è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d'acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico - il «mercato» - non è capace di autoregolarsi. In tutto ciò ha un ruolo essenziale il saggio dei profitti che, come hanno mostrato gli economisti classici, ma sopra tutti Marx, tende a cadere. Quando il saggio dei profitti è tale da generare crisi di realizzazione, poiché vi si associano bassi salari e disoccupazione, e a un tempo tale da generare crisi di tesaurizzazione, il sistema capitalistico va incontro a crisi che se si vuole si possono chiamare sistemiche. Così è stato nella crisi del '29 (le cui radici risalgono però al 1870), così è oggi. In tutti e due i casi - e a ciò mi limito, quanto al confronto tra il '29 e l'oggi - la crisi si è manifestata dopo un tentativo fallimentare di contrastare la caduta del saggio dei profitti con un processo di globalizzazione, di riduzione del mondo a mercato. Aggiungo soltanto che la risposta europea alla crisi del '29 fu il nazifascismo.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Di per sé l'uso della matematica nell'analisi economica non è biasimevole, lo diventa quando si vogliono trattare in forma matematica questioni che non lo consentono, oppure quando non si trattano questioni importanti perché non consentono una trattazione matematica. Di questioni del genere in economia ce ne sono molte. In visita alla London School of Economics, l'anno scorso, la Regina Elisabetta aveva chiesto - con regale candore - come mai soltanto pochi economisti avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, in cui scrivono che una delle ragioni principali dell'incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che l'economia - l'economics - è diventata una branca delle matematiche applicate.
I firmatari della lettera ricordano anche che l'insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull'insegnamento postuniversitario dell'economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che «i programmi di formazione post-laurea possano produrre una generazione con troppi idiot savants, addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti». Nell'educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l'opinabile credenza in una «razionalità» universale né l'«ipotesi di mercati efficienti». Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza - l'orgogliosa consapevolezza - della dimensione politica dell'analisi economica.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Non c'è nessun dubbio che la libera circolazione dei capitali, libera nella misura e nelle forme attuali, sia pericolosa per la democrazia economica e dunque per la democrazia in generale. È la tesi del «senato virtuale», una tesi su cui molto insiste Noam Chomsky (che la mutua da B. Eichengreen) e che a me pare difficile da confutare. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano «irrazionali» tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale).
I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Questo è un portato della liberalizzazione sconsiderata dei movimenti di capitale, a sua volta un effetto dello smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni Settanta: ne sono ovvie le conseguenze per la democrazia economica (i più colpiti sono i più deboli tra i cittadini dei diversi paesi) e dunque per la democrazia in generale.
Credo che la politica economica debba andare al di là della semplice regolamentazione dei mercati, ma anche se si limitasse a questa dovrebbe trattarsi di un disegno condiviso di politica economica e finanziaria internazionale. Un nuovo piano Keynes - che aveva ben chiari i rischi di una circolazione dei capitali sfrenata - non mi pare in vista.
Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Temo che il modello europeo di stato sociale non sia più un modello nemmeno per gli europei. Lo stato sociale è una delle più grandi invenzioni politiche e istituzionali del secolo passato, la sua distruzione una delle più gravi responsabilità dei governi europei degli ultimi trent'anni. La responsabilità è tanto più grave, in quanto ha natura culturale ancor prima che politica. Anche in Europa ha avuto un peso il senato virtuale, ma soprattutto ha pesato una adesione acritica, antistorica e non necessitata dalle circostanze, al liberismo imperiale: che nulla ha a che fare con la tradizione liberale, ancor prima che socialdemocratica, dell'Europa. In verità non è mai esistito un vero e proprio modello europeo di stato sociale, le varianti nazionali avevano storie e articolazioni differenti. Ciò che ancora oggi costituisce un modello intellettuale - modello nel senso di disegno da prendere ad esempio, e cui dovrebbero guardare per primi i keynesiani dell'ultima ora - è la «Filosofia sociale» cui avrebbe potuto condurre la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes.
Oggi come allora i «difetti» più evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità ad assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito (che sono tra le cause principali della crisi attuale). Per rimediare a questi difetti, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione), l'eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell'economia. La redistribuzione del reddito comporterebbe un aumento della propensione media al consumo e dunque della domanda effettiva. L'eutanasia del rentier, dunque del «potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale.
Per quanto riguarda l'intervento dello stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, «l'azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Se i difetti denunciati da Keynes fossero stati emendati con le misure da lui indicate, questa crisi non ci sarebbe stata (talvolta i ragionamenti controfattuali sono efficaci), e d'altra parte temo sia improbabile che questa filosofia sociale sia messa in pratica oggi nel mondo occidentale.
Dunque un'uscita dalla crisi sull'asse Washington-Pechino? Un qualche negoziato tra Stati Uniti e Cina è imposto dal nuovo assetto della divisione internazionale del lavoro, ma quale sarà la strategia di Pechino? Il mondo riconosce che la Cina sta emergendo come grande potenza, ma è un peccato - scriveva di recente l'Economist - che a tutt'oggi non sempre agisca come tale.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Della necessità di una redistribuzione del reddito per via fiscale, della opportunità di una eutanasia del rentier, e della necessità di un intervento attivo dello stato ho già detto. Le politiche dell'offerta fanno parte di quel paradigma teorico, la cui accettazione da parte dei governi ha portato alla crisi attuale. La disoccupazione e il timore di perdere il lavoro innescano un circolo vizioso: consumatori e imprese riducono le loro spese, generando nuovi tagli dell'occupazione. Fino a quando i salari e l'occupazione non saranno risaliti almeno ai livelli di dieci o vent'anni fa, la crisi non sarà finita.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Se quel debito fosse stato contratto per assicurare istruzione, sanità e assistenza ai cittadini, le future generazioni non dovrebbero sopportare nessun prezzo, poiché a fronte di quel debito avrebbero oggi e domani quelle strutture e quei servizi. Il prezzo che pagheranno è la mancanza di quelle strutture e di quei servizi, a causa di un debito pubblico che è stato contratto a favore di quei privati che hanno determinato la crisi attuale.

di Cosma Orsi, «il manifesto», 18 novembre 2009

La Merkel investe nella ricerca. Un bello schiaffo all’Italia

Il governo di centro-destra di Angela Merkel ha reso noto il suo programma di legislatura per la ricerca e l’alta educazione: più 5% di aumento ogni anno fino al 2015 per i finanziamenti ai due grandi centri di ricerca statali, la Max Planck Society e il DFG (Deutsche Forschungsgemeinschaft), più 7,7 miliardi più 5 miliardi di euro, nuovi e aggiuntivi, per le università, dal 2011 al 2015 di cui 5 miliardi per lo sviluppo generale e 2,7 miliardi dedicati all’”Iniziativa per l’Eccellenza”, e infine 14,6 miliardi di euro per lo sviluppo dell’alta tecnologia nei settori considerati strategici: energia, clima, salute e sicurezza. Per uscire dalla crisi, dunque, la Germania punta sul «pacchetto conoscenza»: più scienza e più formazione. Il programma è davvero significativo per almeno tre motivi. Primo: viene al termine di un anno in cui, malgrado la recessione, gli investimenti del governo federale in scienza e sviluppo sono cresciuti del 10%. Secondo, ripropongono tal quale il programma del precedente governo di centro-sinistra, guidato dalla stessa Angela Merkel: una continuità che dimostra come la scienza e l’alta educazione siano una scelta strategica malgrado l’alternarsi dei governi. Terzo: il programma punta, come in Italia, sulla valorizzazione del merito, a Berlino non è sostenuta solo dalle parole e dalle norme, ma da investimenti concreti. Due aspetti particolari colpiscono. Il primo riguarda l’«Iniziativa per l’eccellenza», ovvero il tentativo di premiare le università che fanno meglio. Finora l’iniziativa ha potuto contare su una fase pilota di tre anni, finanziata con 30 milioni di euro l’anno, che ha dato lavoro a 4.200 ricercatori, per la gran parte giovani, di cui il 40% donne e il 25% provenienti dall’estero (molti dall’Italia). Un altro aspetto riguarda l’alta tecnologia. Gran parte degli investimenti in ricerca ha riguardato il settore dell’energia rinnovabile. Con un successo: in dieci anni le fonti rinnovabili sono passate dal 6 al 17% del totale.

di Pietro Greco, «l'Unità», 16 novembre 2009

L’estinzione dello Stato

Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?

L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".

Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.

Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.

Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.

Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare.

Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata.

La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.

Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.

Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica

di Stefano Rodotà «la Repubblica», 20.11.2009

lunedì 16 novembre 2009

La «borghesia camorristica»?Esiste, ma nessuno ne parla


L’attenzione sull’importanza della criminalità dei potenti nell’interpretazione dei processi d’istituzionalizzazione della camorra e la legittimazione che il fenomeno criminale riceve in forme dirette e indirette da ampi settori della borghesia dell’area metropolitana napoletana non ha la stessa radicalità e continuità interpretativa che registriamo, invece, a proposito della «borghesia mafiosa». La domanda, allora, non è peregrina: perché? (…) Perché non si è radicata anche per l’organizzazione criminale camorrista una tradizione di studi (e di indirizzo investigativo) capace di spiegare e interpretare qual è il ruolo che segmenti di ceto professionale, imprenditoriale, burocratico, tecnico — insomma quella che a ragione si può definire borghesia camorristica ha storicamente avuto nel garantire alla camorra la sua riproducibilità? Le ragioni di questo ritardo sono ascrivibili sia ad una sorta di defezione sistematica sul tema della camorra, della sua cultura, delle sue commistioni da parte delle grandi dottrine quali il liberalismo e il cattolicesimo, sia alle ondivaghe posizioni della sinistra che ha oscillato tra le cristallizzazioni o distorsioni interpretative e i lunghi silenzi sul fenomeno. (...) Le connessioni tra esponenti della borghesia e gruppi criminali della camorra sono state addirittura spesso negate o sottovalutate, nonostante il dominante originario carattere urbano del fenomeno criminale esponesse tali componenti a relazioni sociali trasversali, al punto che la consapevolezza dell’esistenza di questo intrigo collusivo veniva già manifestata nel 1901 da Saredo il quale parlava di «bassa» e «alta» camorra, quest’ultima «costituita dai più scaltri ed audaci borghesi».

«L’alta camorra»
La percezione distorta della delittuosità consiste, principalmente, o nel vincolarla alle classi sociali caratterizzate da precarietà economica o a quelle élitarie L’attenzione sull’importanza della criminalità dei potenti nell’interpretazione dei processi d’istituzionalizzazione della camorra e la legittimazione che il fenomeno criminale riceve in forme dirette e indirette da ampi settori della borghesia dell’area metropolitana napoletana non ha la stessa radicalità e continuità interpretativa che registriamo, invece, a proposito della «borghesia mafiosa». La domanda, allora, non è peregrina: perché? (…) Perché non si è radicata anche per l’organizzazione criminale camorrista una tradizione che appaiono molto distanti dall’osservatore medio. È così che si rende assente, svanisce quella vasta «area grigia» che ospita svariate figure professionali, funzionari pubblici, amministrativi, consulenti tecnici, esponenti del mondo delle banche, delle finanziarie, del mondo accademico, imprenditori. E ancora, operatori e intermediari economici le cui ascese sociali si fondano su un modus operandi irregolare e su attività illecite, nuove figure professionali legate alla classe dei servizi pubblici e privati e che offrono servizi alle organizzazioni malavitose; non di rado, anche membri delle forze dell’ordine e della magistratura. (...) Relativamente al contesto napoletano proprio la miriade di attività economiche illegali, para-legali, sommerse, illecite che consentono di produrre, commercializzare e consumare beni collocabili sui diversi mercati (legale, illegale e criminale) favorisce l’intreccio delle collusioni, delle cooperazioni e degli scambi con esponenti delle classi borghesi locali, o addirittura è un fattore di spinta, al punto da potersi legittimamente parlare di «borghesia camorristica ». Il radicamento dei gruppi e delle organizzazioni camorristiche, pertanto, non deriva soltanto dai rapporti sociali che esse hanno sviluppato all’interno della plebe, delle classi marginali ed economicamente deboli; non è solo il prodotto di un inquinamento delle subculture devianti, ma dipende anche dalla capacità nel tempo di evolvere le relazioni fiduciarie e di scambio in direzione di una configurazione sociale trasversale alle classi e ai ceti economici, in modo da costituire un blocco sociale che ha avuto un ruolo decisivo nei processi di accumulazione delle differenti risorse e nei rapporti sociali. (...) L’esistenza di un’economia camorristica, ossia un’economia fondata sulla vasta gamma delle attività produttive illegali e criminali intanto ha assunto un peso ed un’evoluzione imprenditoriale tale da giovarsi, oramai, di investimenti e transazioni operate anche sui mercati legali perché usufruisce dell’apporto della borghesia camorristica e con questa intreccia relazioni che non sono solo il prodotto di «deviazioni professionali», ma il risultato di una stabile rete di scambi e commistioni confusive utilizzate specialmente nella fase «matura» dell’accumulazione, quando, cioè è necessario investire parte del capitale circolante nelle attività legali. Questo è il momento in cui gli effetti di alterazione del tessuto economico legale si propagano e si avvertono in misura crescente fino ad assumere un carattere distorsivo dei processi di sviluppo economico.

Sistemi e tipi di mercato
È fuorviante ritenere che i gruppi criminali prosperino solo perché si diffondono i mercati criminali o perché attraverso la forza intimidatoria i sodalizi mafiosi riescono ad imporsi sia nelle attività economiche che in quelle commerciali legali. In realtà tre condizioni strutturali hanno modificato le ragioni della vincente espansione del crimine organizzato in Campania: l’espansione del mercato politico, ossia l’aumento delle risorse che vengono mobilitate in forme dirette o indirette dalle istituzioni politico-amministrative; la dinamica collusiva tra ceto imprenditoriale ed organizzazioni del crimine basata su relazioni di scambio incentrate ormai sull’offerta di servizi alle imprese e opportunità vantaggiose (come l’affaire rifiuti ha dimostrato) che accrescono in forma indiretta gli utili delle imprese; l’espansione nella regione e oltre delle attività sommerse, delle produzioni in nero, delle economie semilegali le quali configurano un insieme differenziato di beni e servizi prodotti e distribuiti in forme illegali da imprenditori che trovano più conveniente «interagire» con la camorra piuttosto che attirare l’attenzione dello Stato sui profili illegali delle attività svolte.(..)

Il capitale sociale
La camorra si sviluppa e cresce perché può contare sulla produzione di un intenso e forte capitale sociale. Ossia, sulla produzione di un insieme di risorse immateriali (...) che utilizzando la tradizione, la subcultura deviante, la stessa religione, il valore dei riti sociali garantisce la forza, la riproducibilità e la stabilità parziale del clan. (...) Queste risorse simboliche alimentano in forma vincolante l’agire sociale di queste comunità avide più di quanto possa fare il riferimento a norme universalistiche siano esse civili, religiose o ideologiche. I risultati positivi sono tali per gli afferenti che il self-interest ne viene rafforzato e s’indebolisce il richiamo al bene comune. (...)La forza di questo capitale sociale si giova del fatto che le società locali non hanno prodotto per contrasto una forte coscienza civile (a livello di sfera pubblica, di istituzioni politiche, di società civile, di organizzazioni economiche, di istituzioni culturali) consapevole della gravità della presenza di tali fenomeni, né una costante, attenta e illuminata mobilitazione a sostegno dell’operato delle forze di polizia, della magistratura, di quanti si danno da fare per combattere ogni forma di illegalità. (...)

Come uscirne?
Occorre che la magistratura aggredisca i capitali e i patrimoni illeciti accumulati; siano arrestati i latitanti (simbolo della sconfitta dello Stato); si intervenga significativamente nelle periferie delle aree urbane attraverso l’azione della scuola, del volontariato, dei gruppi civili; sia prodotto un più efficace controllo legale e sicuro del territorio; ci sia una forte stigmatizzazione sociale di tutte quelle figure che cooperano, fanno affari e colludono con i gruppi criminali (imprenditori, professionisti, politici, ecc.); sia prodotta una maggiore sinergia fra la sfera investigativa e quella «analitica» (del mondo della ricerca sociale) per ideare nuove e più efficaci politiche di contrasto e sicurezza.

di Giacomo Di Gennaro, «Corriere del Mezzogiorno» Dossier dell'Osservatorio sulla camorra e sull'illegalità, 12 novembre 2009.

Colletto bianco per la mafia

“Il Governo ha rafforzato il 41 bis, ha reso più efficace la confisca dei beni ecc…” Lo scrive il Giornale, lo ripetono i parlamentari del Pdl ogni volta che si presenta un caso Dell’Utri o un caso Cosentino. Come dire: se la mafia avesse i suoi referenti politici, come i magistrati, “comunisti” vogliono dimostrare, il Governo non la combatterebbe. Tesi incontestabile. Ma prima di rispondere alla domanda: cosa chiede la mafia al “suo” referente politico occorre spiegare cos’è la mafia oggi. A fianco di quella militare esiste la borghesia mafiosa inserita nei circuiti economici, produttivi del Paese e nelle amministrazioni pubbliche. Trattasi di soggetti non organici, difficilmente identificabili processualmente, legati alla mafia militare classica da rapporti mutualistici: l’imprenditore a cui fa aggiudicare l’appalto, il politico a cui fa votare; l’impiegato, il dirigente pubblico a cui favorisce la carriera; il docente universitario a cui garantisce appoggi nel consesso accademico; il medico a cui garantisce un incarico in una clinica privata. Ognuno di loro accresce il potere di penetrazione della mafia nella società rendendola un catalizzatore sociale. L’appartenenza dei soggetti è trasversale, la mafia guarda all’opportunità che quel candidato può offrire anche sulla base del suo pensiero mafioso, nuovo fertilizzante che varca i confini geografici, da nord a sud. Subappaltare un’opera pubblica o realizzarla con asfalto, cemento avariato è un reato di frode nelle pubbliche forniture punibile fino a 5 anni patteggiabile, che fa risparmiare soldi da dare alla mafia che ha agevolato l’appalto e garantito che l’ente appaltante contiguo non eseguisse i controlli. In che modo il politico referente la favorisce la mafia? Se, ad esempio, sarà nominato al Cipe, alla faccia delle reali esigenze del territorio e di qualsiasi seria politica di sviluppo, gli garantirà l’allocazione delle risorse per opere pubbliche. Ecco come l’inasprimento del 41 bis per la borghesia mafiosa che contribuisce a varare pacchetti sicurezza i cui non vi è traccia dei reati che commette, diventa un prezioso patentino antimafia. Le pene per questi reati che favoriscono la mafia, pur non essendo commessi da mafiosi, non vengono inasprite perché la borghesia mafiosa è entrata nel corpo elettorale. Il solo pacchetto sicurezza antimafia che questo Governo dovrebbe fare è quello che prevede pene severe per i subappalti in nero e per le frodi a danno dell’erario, mentre sta varando il cosiddetto processo breve di cui potrà avvalersi in concreto proprio chi si macchia di questi reati.

di Sandra Amurri, «Il Fatto», 13 novembre 2009

Milano, così gli imprenditori favoriscono la 'ndrangheta

La ’Ndrangheta che conquista Milano arriva fino in via Montenapoleone, ai piani alti di un meraviglioso palazzo d’epoca al numero 27. Qui fino a pochi mesi fa aveva sede la Kreiamo spa, agenzia immobiliare da oltre un milione di euro di fatturato l’anno. Socio di maggioranza è Alfredo Iorio, figlio di quell’Achille Io-rio, morto nel 2008, e fino ad allora capogruppo di Forza Italia nel Consiglio comunale di Cesano Boscone, paese a sud della città. Prima di allora, lo stesso Achille Iorio, origini calabresi, avrebbe favorito il passaggio del denaro della ’Ndrangheta proprio nella Kreiamo. Nel 2006, infatti, i figli Andrea e Alfredo diventano soci della Io-rio Immobiliare. Questa l’ultima denominazione societaria, perché prima si chiamava Sa. Fran con amministratore unico Serafina Papalia, moglie di Salvatore Barbaro, imputato per associazione mafiosa nel processo Cerberus, e soprattutto figlia del superboss della ’Ndrangheta Rocco Papalia. Oggi la Iorio Immobiliare è diventata Kreiamo.L’inquietante intreccio societario emerge dalla carte dell’operazione “Parco sud” che ieri ha portato all’arresto di 15 persone, tra cui lo stesso Alfredo Io-rio e Andrea Madaffari, vicepresidente di Kreiamo. Nel decreto di fermo compare anche un perito del tribunale che per conto del clan Barbaro avrebbe favorito una compravendita immobiliare.
Affari e mafia, dunque. Un mix sedimentato nella zona a sud di Milano. “Qui – scrive il gip Giuseppe Gennari nella sua ordinanza – gli operatori economici del settore edilizio e movimento terra sanno che devono tenere presente certi equilibri, che ad alcune persone non si possono dare risposte negative”. E ancora: “Chi sbaglia a muoversi ne subisce le conseguenze e lo fa rigorosamente in silenzio”. Perché “la vittima tipo ha chiari sospetti, ma si guarda bene dall’esternare queste idee alle forze dell’ordine”. Ecco allora una prima disarmante conclusione: “Anche in alcune aree metropolitane della civilissima capitale lombarda è assai viva una presenza che fa ombra all’autorità dello Stato”. Una linea della durezza rilanciata ieri dalla dottoressa Ilda Boccassini, capo del nuovo Pool antimafia di Milano. “L’imprenditore che non denuncia – ha detto – si mette contro lo Stato”.
La posizione della Procura è giustificata dalle oltre ducento pagine di ordinanza dove si racconta di imprenditori minacciati che scelgono il silenzio. Decisiva, quella di Salvatore Sansone che il 28 luglio 2008 si ritrovò la sua agenzia immobiliare completamente bruciata. Sentito sul posto disse: “Sappiamo chi è stato, me lo aspettavo”. Ma alle successive domande dei carabinieri, scrive il gip, “tentò subito di minimizzare negando le precedenti dichiarazioni”.
C’è di più. Le intimidazioni della ’Ndrangheta arrivano fin dentro le aule di giustizia. Durante le pause delle udienze delprocesso Cerberus contro Salvatore Barbaro, più di una volta Antonio Perre, classe ’84, boss emergente, sfuggito ieri alla cattura, ha avvicinato i teste dell’accusa per costringerli a ritrattare. Fatto poi puntualmente avvenuto, come conferma il pm Alessandra Dolci, titolare dell’indagine.
Oltre ad Antonio Perre, detto “u cainu”, agli investigatori ieri è sfuggito un altro pezzo da novanta. Si tratta di Domenico Papalia, classe ’83, figlio del boss Antonio Papalia. “Imprendibile – dice la Dolci – non dorme più di tre giorni nella stessa casa, non usa cellulari e ci ha scoperto due microspie”. Lui, che recentemente si è sposato con una ragazza legata ai clan di San Luca, è il vero referente della ’Ndrangheta al nord. E come tale dispone di una forte rete di fiancheggiatori. Attualmente è residente in via Vivaldi a Buccinasco. Bazzicarci per più di una volta significa essere affiancati da due auto, seguiti, scrutati e accompagnati fuori dal paese. In questa zona la rete mafiosa della cosca Barbaro-Papalia è tanto forte da dare appoggio anche ai latitanti. E’ il caso di Paolo Sergi di Platì trovato l’8 giugno 2008 in un appartamento in via Caduti ad Assago. In un box della stessa via, circa un mese prima, sono state scoperte diverse armi tra cui kalashnikov, fucili a canne mozze e bombe a mano. Una vera santabarbara che la cosca, capeggiata da Salvatore Barbaro e Domenico Papalia, testava nei cantieri del movimento terra. A testimoniarlo alcune intercettazioni ambientali.

di Davide Milosa, «Il Fatto quotidiano», 4 novembre 2009

martedì 10 novembre 2009

L’ordine giudiziario è un potere dello Stato

La recente riscoperta del disastro delle navi – colme di decine di migliaia di fusti di rifiuti tossici e radioattivi, provenienti dal nord Italia e dai maggiori paesi industrializzati d’Europa e d’America – affondate in varie zone a largo della penisola italiana e specialmente dinanzi alle coste calabresi ha confermato che il mezzogiorno d’Italia e il Mediterraneo sono stati condannati a diventare il centro dello sversamento di gran parte dei veleni industriali. Dopo decenni, grazie al tenace operato della magistratura, stanno finalmente riemergendo le vere responsabilità delle grandi industrie occidentali che, servendosi di spietate alleanze con mafie e apparati deviati dello Stato, accumulavano nei porti italiani gli scarti tossici dei processi di lavorazione industriale e li indirizzavano verso i paesi dell’Africa. Quando non riuscivano nel loro intento, queste squadre della morte erano costrette a riportare verso l’Italia le navi cariche di veleni che finivano per essere affondate al largo delle coste del nostro Paese, mentre i poteri criminali incassavano anche il premio di assicurazione delle navi affondate. Grazie al continuo lavoro di magistrati e giornalisti lentamente stanno riemergendo le verità sulla morte della giornalista Ilaria Alpi, uccisa in Somalia per aver scoperto il traffico di rifiuti tossici provenienti dall’Italia.
Ma il Mediterraneo non è stata l’unica rotta percorsa dai trafficanti di rifiuti: migliaia di tir gremiti di veleni hanno quotidianamente attraversato le strade dell’Italia, finendo la loro corsa scellerata nelle sue contrade più fertili, in quella che un tempo era chiamata Campania felix per la fecondità della sua terra, e nelle profonde valli della Calabria. Con quei rifiuti sono state avvelenate le colline, le valli, le campagne e le acque di tutto il mezzogiorno, e costruite le mura delle case dei cittadini che da Caserta a Crotone muoiono ogni giorno, silenziosamente, di orribili mali che mai fin’ora avevano così diffusamente colpito queste terre.
I poteri forti del nord Italia hanno tradito la loro missione industriale che consisteva nel produrre beni e servizi d’interesse generale, e accecati dal profitto hanno stretto un patto d’acciaio con mafia, camorra e ‘ndrangheta, per lo smaltimento illegale nelle regioni meridionali dei rifiuti tossici prodotti dalle loro industrie nonché provenienti dalle maggiori industrie dei paesi occidentali.
Il Presidente della Repubblica, on. Giorgio Napolitano, ha confermato che il traffico di rifiuti tossici proviene dal nord Italia con meta nelle regioni meridionali. [inserire citazione giornale] In tal modo i poteri forti non solo hanno favorito la formazione del capitale finanziario delle cosche mafiose, ma hanno assoggettato il mezzogiorno ad uno spietato sfruttamento, rifeudalizzandolo ai loro fini.
Inoltre, i poteri forti della grande finanza del nord Italia, tradendo la causa del Risorgimento e dell’unità italiana, hanno associato le mafie nella perversa e criminale attività di gestione privata delle concessioni degli appalti pubblici, un’attività d’intermediazione finanziaria che il grande economista Pasquale Saraceno ha definito la vera causa della voragine del debito pubblico. Infatti, i grandi gruppi industriali del Nord, che avevano in concessione la gestione dei fondi pubblici e degli appalti per la realizzazione delle grandi opere, hanno condotto un’immensa attività di speculazione alleandosi con le mafie e corrompendo la classe politica. Grazie all’intermediazione finanziaria i concessionari hanno potuto aumentare enormemente il costo delle opere pubbliche, la cui realizzazione è stata spesso affidata in subappalto alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, che per guadagnare hanno lavorato con materiali scadenti, senza alcuna attenzione per la sicurezza dei lavoratori, e che infine hanno sversato nei cantieri anche i rifiuti tossici. Quest’alleanza criminale non solo ha portato quindi alla devastazione dei bellissimi territori italiani e allo scempio del paesaggio, ma anche alla rapina di tutta la ricchezza nazionale e all’aumento vertiginoso del debito pubblico.
Dobbiamo ricordare che la storia ha già conosciuto e combattuto queste figure di speculatori, quando durante la Repubblica romana del II secolo a.C. prima Cesare e poi Ottaviano Augusto dovettero comprendere che il potere dei publicani stava minando l’integrità della Repubblica. I publicani, i concessionari dell’epoca, approfittarono del fatto che la Repubblica non fosse più in grado di gestire i servizi pubblici costituirono enormi società finanziarie ed ebbero la concessione della costruzione delle opere pubbliche e della loro manutenzione, nonché la gestione dei servizi pubblici. Il loro potere si era esteso in tutto l’impero, fino a diventare uno stato nello stato, e nacquero vere e proprie compagnie di imprenditori, potentissime organizzazioni capitalistiche che vennero ad avere immensa autorità in campo economico ed un’influenza politica fuori da ogni misura sia nelle provincie che nell’Urbe, e che furono la causa del collasso della Repubblica (vedi Onorato Bucci, “Le provincie orientali dell’impero romano”, pag. 260).
Questa storia serve a comprendere in modo lineare la tragedia che sta attraversando il nostro paese, e i poteri forti che lo dominano. Della distruzione dello Stato che avviene oggi per mano dei moderni publicani, i general contractor e i gestori di rifiuti, costituisce esempio significativo l’immane rapina compiuta dalle imprese che sono calate dal nord Italia e in combutta con le forze parassitarie ed illegali delle regioni meridionali e utilizzando una folla di professionisti disonesti, sono riuscite a compiere un grande sacco delle risorse statali con una legislazione subdola e perversa da loro stessi ispirata e architettata dai grandi studi legali che sanno tessere quei sistemi di leggi criminogene per mungere quella che Zanotti Bianco chiamava la “perduta gente” del mezzogiorno e le mammelle ormai rinsecchite dell’erario dello Stato, travolgendo finanche i risparmi postali dei pensionati depositati nella Cassa depositi e prestiti, ultimo forziere e succulento bottino da depredare.
La condanna a morte della Campania e del mezzogiorno, la pandemia scatenata dai veleni industriali, e le leggi perverse che stravolgono la legislazione italiana trasformando ogni norma che poteva arrestare i poteri forti della speculazione in norme che rendono pienamente legittimi gli atti già considerati illegali dalla legislazione ordinaria dello Stato, questa violenza sta spezzando l’Italia distruggendo l’Italia meridionale, terra che nei secoli ha generato uomini di cultura e di alto costume, che hanno contribuito con i loro sacrifici al Risorgimento italiano e alla formazione dello Stato unitario, ed oggi subisce la distruzione della scuola e la desertificazione della ricerca scientifica e umanistica, le cui risorse vengono prosciugate dai soliti poteri forti sotto il nome strumentale di ricerca tecnologica, tutta finalizzata ai profitti delle imprese private e alla rapina del capitale finanziario, e non per la formazione di scienziati e tecnici utili al vero progresso.
Venuti meno il sostegno e l’aiuto delle competenze professionali, ormai per la maggior parte omologate alle bande di affaristi e di consulenti disonesti, venuto meno quel costume morale prerogativa del ceto medio impoverito e ricacciato ai margini della vita sociale, l’ultima speranza per il Paese è che la magistratura si ricordi in ogni momento di essere uno dei poteri dello Stato, e che un potere dello Stato può rammentare al popolo che è suo dovere difendere la Costituzione e l’ordinamento giuridico insieme ai cittadini patrioti, e che le sentenze dei giudici sono le architravi della coscienza popolare o gli abissi di una purezza e di un rigore perduti. Aiutare i magistrati a rendersi consapevoli del loro ruolo significa difendere le tradizioni risorgimentali e lo Stato unitario contro l’anarchia costituzionale e contro il malgoverno.
C’è una fucina dove tutto si trasforma, dove si architettano e si formulano le leggi perverse riprendendo la legislazione fascista sulle opere pubbliche e compiendo ancora maggiori violazioni delle leggi fondamentali sulla contabilità dello Stato (neanche il fascismo aveva osato dare anticipazioni sul costo dei lavori, non aveva osato far pagare dai concessionari i collaudatori delle opere e non aveva mai osato assegnare le funzioni di stazione appaltante ai concessionari); c’è una fucina dove si influenza la nomina dei giudici più adatti a far arenare i processi e più inadeguati alle battaglie giudiziarie per il trionfo della verità; in questa fucina, che diventa una vera tregenda italiana governata da bande che Pasquale Saraceno definì coacervi di burocrati corrotti, di politici corrotti, di finanza corrotta associata con mafia, camorra e ‘ndrangheta con l’aiuto e la consulenza di professionalità omologate al sistema, in questa fucina ci sono forze diaboliche che riescono a sotterrare sotto cumuli di rifiuti tossici la memoria storica del nostro Paese e ad addormentare le coscienze degli scienziati meno combattivi.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione si è verificato un rimpicciolimento generale della visione nazionale, un rimpicciolimento fatto di chiusure anguste, provinciali, che non permettono più di comprendere la portata nazionale di eventi storici fondamentali per la vita di tutto il Paese. In questo rattrappimento ogni processo storico fondamentale viene rimpicciolito e ridotto al rango di fatto provinciale e regionale. In questo momento il Processo “Fibe-Impregilo” ai concessionari della gestione dei rifiuti in Campania, che cerca di puntualizzare il marciume e la spietata empietà dei veri responsabili che hanno programmato con satanica crudeltà la morte del giardino d’Europa e minato la salute della popolazione, è un processo che ha il compito di ristabilire la verità storica davanti a tutta la nazione: la Campania è stata – ed è tutt’ora – vittima dei poteri forti del nord Italia, associati con il capitale finanziario di origine mafiosa e camorrista che la storia giudicherà e condannerà per aver scatenato nel mondo una guerra contro le ignare popolazioni pacifiche, una guerra più tremenda e crudele delle orrende guerre mondiali che hanno devastato l’Europa. Se il processo dei rifiuti in Campania si chiuderà assolvendo i colpevoli di questo disastro senza far emergere queste terribili verità sarà avvenuta una falsificazione storica le cui conseguenze saranno il fardello che opprimerà le future generazioni, poiché le pagine di questo processo sono – e resteranno – un tremendo documento storico. Se questo processo si chiuderà con una sentenza inadeguata e vile farà fare un passo indietro alla coscienza di tutti i cittadini italiani e dei cittadini campani che verranno convinti di essere responsabili del disastro sanitario e ambientale e di meritare la separazione dal resto del Paese. Infatti tra le gravi colpe dei poteri forti c’è quella di aver cancellato violentemente dalla memoria della popolazione italiana e meridionale il ricordo della secolare e spontanea consuetudine della città di Napoli e della Campania alla raccolta differenziata, descritta anche dal grande poeta tedesco Goethe nel suo Viaggio in Italia. Ma la raccolta differenziata disturbava e ostacolava i padroni degli inceneritori, che vedevano la raccolta differenziata come ostacolo ai loro profitti. Sarà più lungo e difficile nel caso in cui venga rimossa la verità da una sentenza incerta o dall’infamia di una prescrizione, riprendere il cammino per i cittadini napoletani e del mezzogiorno d’Italia, che verranno riprecipitati al livello di «perduta gente» come Zanotti Bianco definì gli abitanti di queste terre che pur stavano compiendo un grande sforzo per divenire cittadini e non più abitatori.
Questo processo è un grande documento storico che non solo incide e si pone al centro dell’educazione della popolazione italiana, ma deciderà anche della rinascita o della definitiva distruzione della memoria del Risorgimento che ha coinvolto in un unico sforzo per l’unità  milioni di uomini, uno sforzo che potrà andare avanti o essere ricacciato indietro di secoli. Mascherare la memoria storica significa sotterrare nei secoli l’umanesimo, il Risorgimento e lo Stato unitario, coprendoli di nuova terra mortifera fatta di rifiuti tossici, quegli stessi rifiuti tossici che oramai ricoprono le fertili campagne italiane.
Proprio per l’enorme portata storica di questo processo è tutta la magistratura a portare su di sé un’enorme responsabilità, la responsabilità di un’alternativa: o difendere l’Italia dalle forze criminali che vogliono distruggerla o consegnare nelle loro mani il Paese. Noi stessi dobbiamo continuare a sostenere la magistratura, in cui riponiamo la nostra fiducia, e ricordare in ogni istante che questo processo ha un valore immenso per la formazione e la coscienza storica delle nuove generazioni, e che per questo la libera stampa deve occuparsi di questi grandi processi storici con fermezza e coraggio, con spirito di verità e di responsabilità, affinché un’opinione pubblica libera, matura e consapevole possa realmente partecipare alla vita del Paese e sostenere i cittadini e i magistrati che ovunque combattono per la sua salvezza.
Se in questo grande processo la verità sarà celata da una vile sentenza, e se il popolo e i cittadini onesti perderanno la coscienza storica, verrà annullata ogni conquista e ogni sforzo del Risorgimento italiano per creare l’unità dello Stato e la crescita civile delle popolazioni, si scateneranno risse tra le regioni e l’anarchia generale sul territorio, e l’Italia diventerà una mera espressione geografica.

Assise della città di Napoli e del Mezzogiorno d'Italia

sabato 7 novembre 2009

Acqua privatizzata. I rischi di una scelta

Ci sono poche notizie sui giornali e nessuna in Tv sulla privatizzazione dell’acqua. Eppure proprio in questi giorni si decide del nostro futuro. Si sta discutendo infatti in Senato la nuova legge che esclude ogni gestione pubblica delle acque. Non si tratta di un dilemma solo nostro. Tanti Paesi del mondo si stanno chiedendo, su stampa e televisione, fino a che pun to sia lecito privatizzare un bene comune, di cui tutti dovreb bero disporre. Il fatto è che l’acqua è in procinto di diventare l’oro del futuro e c’è chi pensa di guadagnarci sopra. Da qui la fretta di alcune grandi multinazionali per accaparrar si i diritti di erogazione.
Ho già scritto sull’argomento. E c’è chi mi ha risposto sostenendo che le mie preoccupazioni sono esagerate perché la proprietà delle sorgenti e delle reti resterà comunque pubblica nonostante la cessione alle ditte private. Ma il diritto all’acqua si esplica solo se questa sgorga dal rubinetto e se è potabile. Il cittadino non va con il secchio al pozzo o alla sorgente o si mette in fila all’acquedotto. Il diritto all’acqua potabile si esercita solo attraverso la gestione e l’erogazione.
In quasi tutta Europa d’altronde la privatizzazione si è bloccata o addirittura, come succede in Francia, è in atto un processo di ripubblicizzazione. La Svizzera ha dichiarato l’acqua e le reti idriche monopolio di Stato, non suscettibile di privatizzazione. Il Belgio ha fatto una legge per cui tutti i rubinetti vengono gestiti da Spa «in house», ovvero il cui pacchetto azionario è tutto in mano ai Co muni. Gli Stati Uniti rifiutano di privatizzare la gestione delle reti idriche locali che restano salde in mano ai Municipi. In tutta l’America latina poi e in atto un grande laboratorio sui beni comuni. In Uruguay, Bolivia, Ecuador e ora in Cile i parlamenti cambiano addirittura le Costituzioni per affermare tali principi. Da ricordare che in Cile la privatizzazione è avvenuta appena Pinochet è andato al potere. Oggi il governo cileno sta tornando alla proprietà pubblica.
Ma perché preoccupa tanto la gestione privata delle acque? Il fatto è che quando un bene così importante passa nelle mani dei privati, la prima conseguenza è la diminuzio ne dei controlli, la seconda è che aumentano i prezzi (è successo a Latina dove la cessione alla multinazionale Veolia ha portato all’aumento delle tariffe del 300%) e spesso vi si infila pure la mano della criminalità organizzata (cosa accaduta in Sicilia e in Calabria).
La Lega che era contraria alla privatizzazione, da ultimo ha cambiato idea. Perché? Oggi firma una legge Fitto-Calderoli che propone addirittura di fare scendere al 30% la parte cipazione dei Comuni per le società di gestione già quotate in borsa. Ai senatori e al parlamentari chiediamo che riflettano prima di approvare una legge che arricchirà le grandi aziende private (quelle piu favorite oggi sono straniere) e impoverirà le nostre amministrazioni pubbliche.

di Dacia Maraini, «Corriere della Sera», 3 novembre 2009

La riforma del gattopardo


Ogni discussione seria sulla situazione dell'università (e quindi sul Ddl Gelmini) non può che partire da un accordo preliminare sulla funzione dell'istituzione accademica. Da un paio di secoli circa, qualsiasi università degna di questo nome si basa su un presupposto semplice: l'unico fine che la formazione superiore dovrebbe servire è la conoscenza in quanto tale. Da Kant e Wilhelm von Humboldt al cardinale Henry Newman, senza dimenticare Max Weber e Karl Jaspers.
L'idea classica di università, oggi visibilmente al tramonto, ruota intorno al principio della libertà di ricerca e ad alcuni corollari: che né il potere politico, né gli interessi privati possono interferire nella ricerca e nell'educazione degli studenti, che solo gli scienziati giudicano gli scienziati, e che l'università è responsabile davanti alla società del modo in cui usa la propria libertà.

Questo è lo spirito che si respira in una vera università. Dal ruolo che tradizionalmente gli studenti svolgono di opposizione sociale e politica (dal maggio '68 sino alla Teheran d'oggi) sino alle bizzarrie in tema di abbigliamento e stile di vita dei professori, la libertà accademica è il lusso che una società sviluppata e democratica lungimirante dovrebbe concedersi facilmente, riconoscendone le ricadute positive. Che si tratti di algoritmi o di scoperte, di interpretazioni giuridiche o letterarie, di nuove cure o nuove tecnologie, ciò che l'università produce liberamente torna in forma di valore aggiunto conoscitivo, civile e culturale alla società che l'ha reso possibile.

Il privilegio accademico ha naturalmente delle contropartite. I professori devono meritare la loro posizione, e ciò significa che solo la loro capacità e produttività (da accertare in base a ciò che fanno, secondo criteri di valutazione inevitabilmente convenzionali, ma applicati universalmente) giustifica la loro posizione; devono rendere conto alla collettività non di ciò che ricercano, ma dei soldi che spendono nella ricerca e, soprattutto, hanno il dovere di rendere pubblici e trasparenti i criteri e le procedure con cui cooptano o promuovono quelli che un giorno li sostituiranno.

In altri termini, l'università può essere libera solo se è responsabile. Su questo piano, spiace dirlo, non solo i governi di centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent'anni si sono dimostrati disastrosi, ma il ceto accademico ha dato il suo efficace contributo al disastro. Farò un esempio di connivenza oggettiva. Anche i sassi sanno ormai che la riforma Berlinguer è fallita perché imposta dalle lobby accademiche che vi hanno trovato un meccanismo ideale per moltiplicare posti e poteri. Al di là delle proteste puramente verbali della Conferenza dei rettori per il taglio incessante dei fondi, tra i governi degli ultimi anni e i grandi gruppi di potere accademico c'è sempre stata una corrispondenza d'amorosi sensi.

Ma la connivenza tra baronati e ministri va oltre. Dopo la comparsa priva di tracce ed effetti di personaggi incompetenti come Moratti e Mussi, il ministro Gelmini - che probabilmente di questioni universitarie non mastica molto, ma deve avere dei consulenti che hanno obiettivi assai chiari - dà un'ulteriore sterzata dirigistica non solo imponendo a tutte le università la stessa struttura di governo, ma aumentando a dismisura il potere del rettore e conferendo la facoltà di eleggerlo ai "professori ordinari in servizio presso università italiane in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione, anche a livello internazionale, nel settore universitario, della ricerca o delle istituzioni culturali" (art 2, comma 2, capo c). In altri termini, solo un ristretto gruppo di baroni eleggerà il rettore, e poiché di norma i rettori che contano sono medici e ingegneri, chiunque capisce quali sono i gruppi di interesse, accademici e non, coinvolti nella vera "governance" dell'università.

In base ai principi della libertà e della responsabilità esposti sopra, alcuni punti del Ddl sono del tutto inaccettabili, mentre altri, sulla carta, potrebbero essere discussi. Tra i primi c'è il quaranta per cento dei posti in Consiglio di amministrazione riservati ai "privati", senza alcun vincolo di finanziamento (con che diritto i privati contribuiscono alle decisioni in materia di vita accademica se non danno contributi?). E lo stesso vale per un'agenzia di valutazione dai contorni indefinibili, ma aperta ai privati e soggetta visibilmente all'imperio del ministro. E non parliamo delle norme in materia di reclutamento. Al di là dell'"abilitazione" nazionale dei futuri docenti, che riprende idee vecchie quanto il mondo e in fondo l'antica libera docenza, la composizione delle commissioni è ovviamente macchinosa, come sempre, e si basa su un principio, il sorteggio, che sostituisce in parte il mero caso alle vecchie spartizioni nazionali. Nei settori scientifico-disciplinari organizzati, e cioè quelli che hanno un potere reale, è facile prevedere che il sorteggio non cambierà di molto le cose.

Il principio della valutazione della ricerca individuale in linea di principio è sacrosanto e non si capisce perché incontra tante resistenze a sinistra (o meglio si capisce benissimo). Chi è vecchio del mestiere sa che l'università italiana si porta dietro, a ogni livello gerarchico, una sacca di docenti i quali, ammesso che abbiano fatto ricerca da giovani, a un certo punto smettono o vivacchiano, facendosi i fatti propri o interessandosi esclusivamente dei propri micropoteri. Che i contribuenti paghino lo stipendio a simili "professori" - e non sono pochi - i quali oltretutto occupano posti che potrebbero essere riservati ai giovani è una vergogna dell'università italiana. E io non trovo nulla di scandaloso nel fatto che siano previsti incentivi per i più meritevoli, quelli che lavorano di più e meglio. Semmai, ciò che è privo di senso è i che fondi per l'incentivazione siano gestiti dal ministro dell'Economia: questo significa soltanto che il ministro detterà alla comunità accademica criteri di valutazione che saranno tutto tranne che scientifici. Quanto al fatto che tali fondi deriveranno (a parole) dal gettito del famigerato scudo di Tremonti, l'equazione tra denari illeciti e finanziamento della scienza parla da sé.

Anche i ricercatori a tempo determinato in teoria potrebbero essere accettabili (se non altro per metterli alla prova ed evitare che uno entri all'università e il suo lavoro non sia valutato mai più). Ma poiché siamo in Italia e la "riforma" è a costo zero, appare evidente che i contratti a tempo determinato sono solo nuovo precariato, oltretutto senza alcuna indicazione sugli sbocchi futuri.

A me pare che il Disegno di legge Gelmini manipoli più o meno abilmente alcuni principi che sono diventati.nel bene e nel male senso comune dell'università (valutazione, merito, efficienza ecc.). Ma ho l'impressione che il suo obiettivo sia soprattutto rafforzare l'università italiana in senso verticistico, attribuendo tutto il potere all'alleanza tra rettori, gruppi baronali e attori esterni. In realtà, nel Disegno di legge il controllo su quello che davvero fanno i professori è del tutto aleatorio e fumoso, la valutazione è una chimera e la semplificazione delle strutture al servizio di un'organizzazione più dispotica di prima ma burocratica quanto in passato.

Se si tiene conto che i finanziamenti sono in costante diminuzione e che i difetti strutturali non sono scalfiti in nulla, il risultato del disegno di legge Gelmini sarà un'università culturalmente modesta, ancor meno competitiva sulla scena internazionale e assoggettata al potere politico. Insomma, una riforma roboante ma gattopardesca nello stile della destra italiana, affinché tutto sia come prima o magari peggio.
 
Alessandro Dal Lago, «il manifesto», 6 novembre 2009

Un silenzio colpevole

Il manifesto ha iniziato a riprendere la storia delle rotte dei veleni il 5 settembre 2009, in un reportage sulla discarica di Borgo Montello, in provincia di Latina. Questa zona a pochi chilometri da Roma, dove secondo alcuni collaboratori di giustizia i casalesi hanno interrato per anni rifiuti pericolosi, ha una vocazione agricola. È una sorta di giardino dove vengono coltivati ortaggi, frutta, uva da vino. Pochi mesi fa l'Arpa Lazio (Agenzia regionale per la protezione ambientale), ha scritto che la falda acquifera è contaminata. Bene, il sospetto era - ed è - che qui siano finiti una parte di fusti con rifiuti pericolosi trasportati alla fine degli anni '80 da alcune navi dei veleni.

Il ritrovamento, ieri, di un container sul fondo del mare toscano aggiunge un altro tassello alla nostra ricostruzione. E, qualora fosse appurato che si tratti di rifiuti tossici, sarebbe la dimostrazione di quello che stiamo cercando di dimostrare: il «caso» non si ferma al relitto di Cetraro e quella che stiamo riprendendo non è solo una storia del passato, ma uno scempio che continua ancora oggi.

Il sistema delle rotte tossiche è stato utilizzato da almeno 140 "grandi marche", ovvero dal gotha del sistema industriale italiano, come abbiamo raccontato e documentato nei giorni scorsi. E quella stessa rete di connivenze, complicità criminali, dove accanto a pezzi dello stato vediamo all'opera le peggiori mafie - camorra e 'ndrangheta - si è poi allargata e specializzata nel corso degli ultimi anni. Ci sono almeno cinque questioni che aspettano una risposta.

Le cronache più recenti parlano di settori dell'Enea alleati con faccendieri come Flavio Carboni per gestire presunti traffici illeciti di amianto (inchiesta su discarica di Pomezia, 2009); abbiamo assistito alla gestione di immense discariche nel biutiful cauntri dei casalesi; abbiamo scritto di come società di grandi dimensioni bruciassero di tutto senza nessun controllo negli inceneritori. Sono pezzi della stessa storia, che prosegue dagli anni '80, da quando le navi italiane portavano in giro per il mondo gli scarti delle nostre industrie.

Per questo continueremo a parlare su queste pagine di navi dei veleni. Ci sono domande che da mesi aspettano una risposta dal governo. Tasselli di un unico disastro ancora avvolti da una fitta rete di reticenze politiche e istituzionali. Le elenchiamo, sperando che qualcuno un giorno riuscirà a sbrogliare la matassa e a dare qualche risposta. Eccole.

1) - Il 5 settembre abbiamo chiesto alla Protezione civile di sapere dove sono stati smaltiti i 10.500 fusti tossici riportati in Italia dalla nave Zanoobia nel maggio del 1988. La protezione civile fino ad ora non è stata in grado di rispondere. Chiediamo dunque al ministro dell'ambiente: il governo è in grado di spiegare come e dove sono stati smaltiti i rifiuti tossico-nocivi rientrati in Italia tra il 1988 e il 1989?

2) - Il ministro Carlo Giovanardi nel 2004 dichiarò in Parlamento: «Evidenti segnali di allarme si sono colti in alcune vicende giudiziarie da cui è emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico d'armi. (...) Numerosi elementi indicavano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei». Quali sono questi paesi che sono stati coinvolti nel traffico internazionale di rifiuti?

3) - Il 24 gennaio del 2006 l'allora sostituto procuratore della Repubblica di Paola Francesco Greco riferì davanti alla commissione bicamerale sui rifiuti che era stato individuato al largo di Cetraro un relitto della lunghezza di 126 metri circa. Dopo ulteriori informazioni acquisite dal Procuratore di Paola Bruno Giordano, l'assessore regionale della Calabria Silvio Greco ha scritto il 14 maggio 2009 al ministro dell'ambiente chiedendo un intervento per lo studio del relitto. Perché in questi quasi quattro anni il Ministero dell'ambiente non ha mai approfondito quanto comunicato dalla Procura di Paola fin dal gennaio 2006?

4) - Nella stessa seduta del gennaio 2006, il pubblico ministero Francesco Greco affermò che non era riuscito ad ottenere informazioni precise dalle Capitanerie di Porto sui relitti presenti al largo di Cetraro e che in alcuni casi era stato opposto il segreto militare. Risulta al ministro che esista un segreto di stato o militare sui relitti presenti sui fondali del mare della Calabria? E' stato mai apposto il segreto sulla vicenda delle navi dei veleni? E' vero che la Guardia Costiera non fornì le informazioni chieste dalla Procura di Paola, come sostiene il magistrato Francesco Greco?

5) - Nel maggio del 2007 un imprenditore di Fondi (Latina), Massimo Anastasio Di Fazio, poi arrestato con l'accusa di usura con modalità mafiose, annunciò di aver concluso un accordo con la Liberia per l'esportazione di rifiuti in Africa per un valore di 170 milioni di euro. Secondo quanto riportato dal sito dell'emittente locale canale sette, all'accordo avrebbe partecipato anche l'ex sindaco Luigi Parisella. Oggi riportiamo poi la storia dei container buttati in mare da navi tedesche, solo quattro mesi fa. Risulta al ministro dell'ambiente che esistono oggi accordi per l'esportazione di rifiuti pericolosi da parte di aziende italiane verso l'Africa? Quali procedure di controllo dei nostri mari vengono attuate per bloccare lo scarico di rifiuti da parte di navi mercantili?
 
la redazione de «il manifesto», 5 novembre 2009