sabato 17 ottobre 2009

La ripresa fiacca che indebolisce il biglietto verde

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti si trovarono nella fortunata situazione di poter dettare, dall’alto della loro indiscussa posizione di vincitori e di maggior potenza economica (avevano il 50% del pil mondiale e la gran parte delle riserve d’oro, oltre a enormi crediti nei confronti della Gran Bretagna e di altri paesi) le condizioni alle quali volevano vedere ricostruito il sistema economico internazionale. Tra le condizioni che imposero ai paesi vinti Germania, Italia e Giappone fu la riapertura dei commerci secondo modalità di multilateralismo, cambio unico e tassi di cambio abbastanza bassi da suscitare correnti di esportazioni da tali paesi. Ebbero poi l’intelligenza di aprire il loro mercato ai prodotti di quei paesi.
Data la loro enorme potenza economica, si temeva che avrebbero invaso con le loro merci i mercati europei. Ciò non accadde perché gli Stati Uniti avevano una enorme domanda interna da soddisfare, visto che i loro cittadini avevano accumulato grandissimi risparmi perché con la guerra era arrivata la piena occupazione mentre la produzione di guerra aveva ridotto la disponibilità di beni di consumo durevoli.
Con la fine della guerra i consumi esplosero e l’industria americana fu impegnata a produrre per il mercato interno. Quando i paesi sconfitti furono di nuovo in grado di esportare, il mercato americano era tanto desideroso di merci e tanto pieno di soldi, da accogliere anche i loro prodotti.
Ci si aspettava una fame mondiale di dollari. Ma questa durò poco, perché gli americani iniziarono alla fine degli anni quaranta il gigantesco programma degli aiuti Marshall e perché si diedero anche, dopo l’inizio della guerra fredda, a ricoprire l’intero mondo di basi militari, fornendo anche costosi aiuti militari agli alleati, a condizioni estremamente favorevoli. Così sfumò la fame di dollari e il dollaro iniziò invece una perdita di valore nei confronti delle altre principali monete, incrementata anche dal surplus commerciale con gli Usa che i tre paesi sconfitti cominciarono ad accumulare. Non volendo per alcun motivo rivalutare le proprie monete, alla fine degli anni cinquanta essi cominciarono ad accumulare dollari e oro, che gli Stati Uniti vendevano liberamente al tasso fisso di 35 dollari l’oncia.
Quando le riserve d’oro americane cominciarono a scemare vistosamente, fino a non coprire più la circolazione dei dollari di carta, si sparsero per il mondo voci sulla probabile svalutazione della moneta americana. Un bel cambiamento dalla situazione alla fine della guerra, solo quindici anni prima. Data da quegli anni anche il dibattito sulla necessità di rimpiazzare il dollaro con un paniere di monete, dibattito che precede la fluttuazione del dollaro dell’agosto 1971 e prosegue da allora fino ad oggi.
Oggi, tuttavia, i principali creditori degli Stati Uniti sono tutti nel Medio ed estremo oriente (se si eccettua la Russia, che però sta vendendo velocemente le riserve accumulate con i proventi del caropetrolio del 20072008). Non ci si deve perciò meravigliare se sono loro a tenere vivo il dibattito sul futuro del dollaro. In particolare, il massimo creditore degli Stati Uniti, la Cina, porta avanti una ragionevole campagna per ottenere maggiore potere nelle istituzioni internazionali. Vuole, ad esempio, che la sua quota al Fmi sia di molto aumentata e probabilmente vuole anche che a sostituire Strauss Khan alla testa di quell’organismo sia un cinese. La classe dirigente cinese, in aggiunta, non è affatto unita al suo interno relativamente alla strategia da seguire nei confronti del dollaro. Nessuno di loro vuole che esso si svaluti troppo rapidamente e profondamente. Ma ci sono dei "falchi" che preferirebbero usare la minaccia della vendita dei titoli di stato americani in mano alla Cina per ottenere svariati vantaggi su altri tavoli del continuo negoziato che la Cina conduce con gli Stati Uniti.
Così abbiamo visto il governatore della banca centrale cinese riproporre il piano dei diritti speciali di prelievo, in sostituzione del dollaro come base del sistema monetario internazionale, Così vediamo varie personalità cinesi farsi avanti, e commentare severamente il marasma finanziario americano. Ma, come tutti sanno, i cinesi non hanno fretta. Il mondo si è messo ad andare nel loro verso, e loro sanno di avere più carte in mano della gran parte degli altri giocatori sullo scacchiere mondiale.
Questo non è invece altrettanto vero quando si considera la posizione dei maggiori paesi produttori di petrolio del medio oriente. Essi non hanno la sensazione che le cose girino per un verso a loro favorevole. Innanzitutto perché le quotazioni del greggio, al momento, sono al disopra del livello di puro equilibrio commerciale, e sono state di nuovo sospinte, dai quaranta dollari dello scorso anno, verso i valori attuali da una ripresa della speculazione al rialzo. Se questa viene meno, si ritorna in basso, verso livelli assai meno remunerativi. Ma quel che più preoccupa i paesi del Golfo è la politica estera della amministrazione Obama. I sauditi, in particolare, temono che Obama si avvii a fare troppe concessioni all’Iran e che ciò rinforzi la fazione sciita nell’area. Ricordiamo che i territori sauditi dove si trovano i giacimenti sono abitati da popolazioni sciite e che l’attuale vice presidente degli USA, Joseph Biden, fu autore in anni passati di un piano di divisione dell’Arabia Saudita in tre parti, che avrebbe dato agli sciiti il controllo dei pozzi di petrolio.
Quel che ho detto a proposito del prezzo del greggio vale anche di più per quel che concerne i mercati delle materie prime. Lì le ragioni delle alte quotazioni sono venute meno, perché le condizioni attuali della offerta si accordano con prezzi assai più bassi. Come è noto, da quando è intervenuta la speculazione in massa su questi mercati, una previsione di svalutazione del dollaro comporta quasi automaticamente un forte effetto al rialzo su questi prezzi, perché le materie prime sono viste come beni rifugio, esattamente come l’oro, da comprare quando il dollaro tentenna.
Quindi, dato che a pensar male di solito si indovina, non è da escludere che tenti, paventando un crollo del dollaro, di creare negli speculatori che hanno posizioni sui mercati delle merci primarie un incentivo a rinnovare tali posizioni, invece di venderle, come detterebbero le previsioni a breve termine sul mercato di queste merci.
Sul ribasso del dollaro può avere influito anche la constatazione, che chiunque è in grado di fare, che il sistema finanziario americano, che doveva uscire dalla crisi profondamente riformato, prosegue invece senza che ai suoi principali difetti sia posto riparo. Le banche d’affari sono divenute banche commerciali, così possono ricevere denaro pubblico, ma avendolo ricevuto lo usano per gestire enormi posizioni speculative, a grande rischio, dalle quali hanno cominciato a trarre di nuovo grandissimi profitti.
I mercati dei prodotti derivati non sono stati riorganizzati come mercati centralizzati, ma persistono, per quel poco che si combina in questo settore, come somma di singole transazioni di prodotti "personalizzati", sui quali si ignora tutto eccetto che chi le gestisce guadagna moltissimo. Inoltre, esiste la certezza che il mercato dei mutui edilizi sopravvive in America solo perché è stato nazionalizzato, dato che i principali intermediari sono stati salvati e sono divenuti di proprietà del governo e della Federal Reserve. Se si cerca di riprivatizzarli, può di nuovo crollare tutto.
Questa serie di considerazioni può servire a spiegare la debolezza del dollaro. Essa è divenuta strutturale da quando l’economia americana ristagna per via della crisi, mentre quelle dei paesi emergenti (i BRIC) proseguono la loro corsa, Tra pochi anni negli Usa si produrrà si e no il 20% del pil mondiale e sarà ancor meno vero di oggi che una gran parte delle transazioni internazionali avrà come controparte gli Stati Uniti.
Poiché chi governa l’America sa che questo scenario è certo, più che probabile, e lo sa altrettanto bene chi governa la Cina, da entrambe le parti si cercherà nel futuro prossimo di effettuare un graduale passaggio di testimone in campo monetario internazionale. I circoli finanziari americani cercheranno di intermediare anche questo cambiamento. Ma esso non può consistere nell’acquisto, da parte cinese, delle banche d’affari e dei fondi di investimento americani, come avvenne nel caso della staffetta Inghilterra Stati Uniti. Consisterà invece, sempre che il diavolo non ci metta la coda causando qualche inattesa e rovinosa crisi, in un graduale ritorno ad una organizzazione pubblica della finanza internazionale, con la riforma del Fmi e la introduzione di una qualche forma di moneta mondiale, del tipo dei diritti speciali di prelievo, con i cinesi che pretendono dai loro partners commerciali che le transazioni con loro avvengano in questa moneta composita.
Nel breve termine, tuttavia, a andarci di mezzo, se il dollaro cede terreno, sarà l’Euro, l’unica altra moneta che non è tenuta a un livello considerato conveniente dalla banca centrale che la emette. La BCE non ha né riserve né il mandato politico per farlo. Così, cinesi, sauditi, speculatori in materie prime mandano giù il dollaro e a salire è solo il corso dell’Euro. Pessime notizie per gli industriali e i lavoratori tedeschi e italiani, che cercano di riprendersi dalla botta subita nel 2008\2009.

Di Marcello De Cecco, «la Repubblica Affari&Finanza», 12 ottobre 2009

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