giovedì 10 dicembre 2009

La critica al neoliberismo di Noam Chomsky

“Crisi globale dell’economia”, è questa una delle espressioni più diffuse che hanno riempito le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali negli ultimi due anni. Perché? Che cosa è successo?
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti, pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi, la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri, professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti, il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la “Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo Studio di Pianificazione Politica n°23), scritto da George Kennan, capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita, le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza, libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste  linee guida, la chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”,infatti, era stato affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto da porre alla definizione  di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il 1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato ‘Parlamento Virtuale’: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di  incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[] Così in tutto il mondo,si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso spiega due fatti:
A)    il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B)    le industrie delle multinazionali americane hanno sempre sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che “egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti, le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente, come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?

di Matteo De Laurentis

8 commenti:

  1. Innanzitutto ti faccio i miei complimenti per la chiara e precisa analisi che hai esposto e che nel complesso è pienamente condivisibile. Vorrei fare qualche riflessione su alcuni punti per me molto interessanti e che costituiscono una stimolante traccia di ricerca da sviluppare per comprendere il nostro tempo storico.
    Che il neoliberismo, in fondo, non sia mai divenuto realtà, che si sia sempre intrecciato in qualche modo alle scelte politiche e che per il libero mercato vi siano soltanto limitati spazi di movimento all'interno di più generali cornici politiche e contraddizioni storiche, oggi possiamo dirlo se non con matematica certezza, ma con numerose e forti argomentazioni difficilmente contestabili. Con questa chiave di lettura, anzi, sarebbe necessario anche ripercorrere la storia economica del nostro paese, come sta facendo in parte in questi giorni il prof. Zagari dell'Università di Napoli Federico II con delle bellissime lezioni sulla questione meridionale, presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Un altro importantissimo punto che hai trattato con la teoria di Chomsky mi è sembrato essere il rapporto tra economia e politica: da ultima delle scienze (come la chiamava Keynes) l'economia è diventata dalla II guerra mondiale scienza prima, la più corteggiata, anche dalla politica. Anzi, nel secondo Novecento, si può dire che il principale scontro "ideale" si possa rintracciare proprio tra queste due forze dello spirito umano e, ancora più in particolare, la lotta all'ultimo sangue tra la ricchezza pubblica, intesa come patrimonio dello Stato (le aziende statli, le banche, gli enti e i servizi pubblici), e l'avidità privata delle forze industriali e finanziarie transnazionali che si sono nascoste dietro al grido "Più società e meno Stato!". Su questo passaggio si potrebbe stare molto a discutere, perché credo sia particolarmente delicato. Ma voglio citare soltanto l'articolo di Stefano Rodotà "Estinzione dello Stato" dove si lascia intendere quale sia stato in questi ultimi cinquant'anni il vero, grande, affare dei privati, dei rentiers, degli appaltatori: e cioè la liquidazione del capitale di Stato che stava nelle sue (ma direi nelle nostre) aziende del nord e del sud, nelle istituzioni a salvaguardia del territorio, nella scuola, nelle università, nei centri di ricerca, nel magnifico e fertile (un tempo) suolo agricolo, nei fiumi ormai inquinati, nelle montagne cementificate o cavate. Questa era la nostra immensa ricchezza, la nostra economia! Costruita con sforzi eroici ed enormi sacrifici dai padri del Risorgimento, difesa con la vita dai Padri Costituenti, sostenuta dai nostri padri con il loro lavoro umiliato, sottopagato, disprezzato. Smantellata anno dopo anno con le privatizzazioni, con la soppressione degli enti di controllo (grazie alla modifica del titolo V), con la finanziarizzazione dell'economia, con l'abbandono della produzione, con le leggi sulla concessione di appalti senza controlli ma con ghiotte anticipazioni, con il debito pubblico che si tramanderà di generazione in generazione. Insieme alla povertà di milioni di italiani. E infine con l'economia parassitaria delle continue emergenze. Basta.
    Direi soltanto, quindi, a commento del tuo articolo che a spalleggiare la rapina dei concessionari e degli amministratori delegati non sono stati gli uomini di Stato ma forze retrive decisamente ostili alla felicità pubblica, quel blocco sociale (professionisti, imprenditori, camorristi, funzionari corrotti, politici reazionari) che il povero Hegel, rievocando il giurista napoletano Francesco Mario Pagano, definiva "Non-Stato". Lo Stato, invece, siamo noi. Gli studenti, i ricercatori, i lavoratori e gli studiosi onesti, i cittadini consapevoli, gli artisti veri, i poveri innocenti, insomma tutti quelli che hanno ancora mente e cuore. E lo dimostreremo.

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  2. Ciao, inanzitutto mi presento: sono Francesco da Brescia, e studio Scienze Politiche a Padova.
    il tuo articolo è molto bello, ma avrei un paio di cose da puntualizzare.
    la prima è riguardo alla chiusura del sistema di Bretton Woods.
    " Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati."
    La chiusura della stagione di Bretton Woods è dovuta non alla volontà di smantellare il welfare state, ma dalla necessità stringente dovuta al cambiamento fondamentale delle circostanze rispetto al '44. I costi esorbitanti della guerra in Vietnam, uniti al quadruplicarsi del cprezzo del greggio voluto dall'OPEC in risposta al supporto militare fornito dagli USA a Israele, fecero sì che un sistema basato sulla convertibilità del dollaro in oro a un tasso fisso causasse un deficit incredibile agli USA, che dovevano poter svalutare la propria moneta per poter comprare ancora petrolio: i dollari valevano troppo per poterne spendere così tanti come i nuovi prezzi del greggio richiedevano. Se non si fosse abbandonato il sistema il costo sociale dovuto ai tagli sarebbe stato decisamente più alto.

    Inoltre c'è un altro punto che non mi è chiaro: appurata la non esistenza di un sistema economico neoliberista, Chomsky definisce a grandi linee, nei tre punti finali dell'articolo, la natura del sistema stato-economia in cui viviamo. Dopo aver illustrato le caratteristiche, dici che era destino che crollasse, e poi parli di fallimento del neoliberismo.
    Primo, se di neoliberismo non si trattava, non si può nemmeno decretarne il fallimento.
    Secondo, non vedo nelle premesse dei 3 punti l'inevitabilità di questa crisi.
    A parer mio, e non solo, questa crisi è stata scatenata dall'applicazione di una politica neoliberista ad un sistema diverso: si è voluto far fallire una banca enorme che era piena di debiti, ma lo si è fatto in un sistema tale per cui questo mancato sostegno da parte dello stato agli istituti di credito ha provocato un panico diffuso, un crollo dei mercati finanziari e una conseguente restrizione del credito che ha paralizzato l'economia reale.
    La crisi non è stata originata da contraddizioni interne al modello vigente, ma dall'applicazione di una ricetta inadeguata.

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  3. Ciao, per prima cosa ringrazio Milena e Francesco, finalmente qualche commento, che era un po' lo scopo di questo blog.
    Qui risponderò a Francesco.
    Per quanto riguarda la chiusura di Bretton Woods, va detto, in primo luogo che questa è l'interpretazione di Chomsky, come il titolo dell'articolo sottolinea; questo non vuol certo dire che la parola di Chomsky non possa essere discussa, ma poichè sono due anni che affronto i suoi testi penso di poter dare una chiarificazione ulteriore alle sue parole. La spiegazione che Francesco fornisce della chiusura del sistema di Bretton Woods è certamente corretta dal punto di vista tecnico-economico, ed è sicuramente il motivo reale della fine di quel sistema. Nell'ottica di un critico politico quale è Chomsky, però, una scelta di questo tipo presenta sempre più di una motivazione e il suo punto di vista sui metodi di azione delle classi governative lo porta sempre a ritenere che dietro ad una scelta ci siano mirati e precisi calcoli. In altre parole probabilmente Egli intende affermare che, anche se la fine del sistema era necessaria, essa venne attuata comunque attraverso una nuova forma in grado di dare grossi vantaggi alle elites economico governative, oppure che esse furono molto abili nell'intuire le possibilità che il nuovo scenario avrebbe dato. Di più, credo di poter dire che la fine del sistema salvò da costi sociali più elevati in quel momento, ma Chomsky ci sta spiegando quelli di oggi, "la grande capacità degli USA di risolvere l"'hic et nunc" senza pensare al domani(parafrasando Brzezinski); forzando la riflessione, e sottolineo forzando, socializzando i costi nel futuro.
    In secondo luogo, è ben evidente che nel passaggio finale la parola neoliberismo è stata utilizzata tra virgolette, proprio per evidenziare l'erroneo nome che viene dato al sistema di cui dichiaro il fallimento.
    Infine, la crisi che è stata analizzata nell'articolo è una crisi dell' economia reale, cominciata ben prima di quella finanziaria cui Francesco fa riferimento, che ha certamente acuito i problemi dell'economia reale, rendendoli più evidenti a tutti, ma credo che forse l'impatto di quest'ultima sia stato così devastante proprio per le ragioni descritte da Chomsky, ed è questa la ragione che mi ha spinto a scrivere, proprio per disegnare un quadro entro cui la crisi finanziaria e la successiva catena di conseguenze fossero più comprensibili.

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  4. Condivido comunque anche l'interpretazione della crisi di Francesco, aggiungendo che in quet'ottica l'interpretazione di Chomsky potrebbe far comprendere perchè non fossero disponibili strumenti di reazione alla crisi del credito.

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  5. Caro Matteo,
    scusa il ritardo e complimenti.
    Mi associo Milena (e Antonio) nel rilevare l'interesse di aver provato a mettere in connessione nell'analisi dell'attuale sistema, l'aspetto politico con quello economico-finanziario, e non ripeto quanto già detto ma ci tengo ad evidenziare la nozione di Parlamento Virtuale e la stretta relazione tra politica estera, multinazionale e politica interna, che hai sapientemente fatto emergere dal discorso del caro signor C.
    In un seminario all'Istituto del prof. Rosario Patalano si è discusso di John Maynard Keynes e Bretton Woods. È emerso che il piano varato affettivamente era un terzo di quello proposto dal grande economista. Non sarei in grado di ripercorrere le differenze ma mi piacerebbe che Francesco raccogliesse lo spunto e ci spiegasse, in base ai suoi studi, i limiti di B. W. e le relazioni tra questi limiti, l'originale idea di Keynes e i provvedimenti del 1971 per capire se il "cambiamento fondamentale delle circostanze" fosse stato annunciato/preparato oppure no; su questo bisognerebbe parlare della Scuola di Chicago, ma comunque: per comprendere l'irrazionale strategia anticrisi - che invece con la lettura di Chomsky diventa spaventosamente logica - che ha drenato centinaia di miliardi di dollari dalle casse pubbliche verso i soggetti più abbietti e pericolosi dell'umanità, consiglio la lettura attenta degli articoli di Rampini, di De Cecco e del servizio di copertina di internazionale di qualche settimana fa sulla nuova bolla - già abbondantemente prevista dai commentatori più attenti - che sta per scoppiare, dimostrando come l'emotività (il panico diffuso, p.e., oppure la mortificazione per aver creato un disastro planetario che ha incrementato la miseria nel mondo) c'entri veramente poco... ve lo girerò via mail.
    buon lavoro a tutti e un caro saluto.
    Luigi

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  6. Ringrazio Matteo per l'ottimo editoriale pubblicato sul nostro blog.

    Credo che questo testo metta bene in luce, attraverso la sua interpretazione del pensiero di Chomsky, l'origine sistemica della crisi economico-finanziaria dei nostri giorni che, come giustamente è stato precisato, ha origini ben più lontane e radicate di quanto il gigantesco crack finanziario dell'autunno del 2008 possa far sembrare. Una crisi sistemica proprio perché, come evidenziato nell'editoriale, il libero ed incontrollato flusso di capitali ha generato una sproporzionata – e anche fittizia – accumulazione di capitale nelle mani di pochi investitori istituzionali e di grandi corporations e un generale impoverimento dei diversi welfare state (in Italia stiamo andando verso la privatizzazione del welfare state con la riforma Sacconi...) e delle classi lavoratrici sempre più costrette al precariato o alla disoccupazione. A questo proposito riporto un breve passaggio dell'intervista all'economista Lunghini che abbiamo anche pubblicato nella rassegna stampa del nostro blog: «Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il "mercato" – non è capace di autoregolarsi. [...] Non c'è nessun dubbio che la libera circolazione dei capitali, libera nella misura e nelle forme attuali, sia pericolosa per la democrazia economica e dunque per la democrazia in generale. È la tesi del "senato virtuale", una tesi su cui molti insiste Noam Chomsky (che la mutua da B. Eichengreen) e che a me pare difficile da confutare. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano "irrazionali" tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare della varie forme di stato sociale)».
    Un caro saluto a tutti,
    Antonio

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  7. ciao.
    mi fa piacere che abbiate postato anche voi.
    Rispondo volentieri a Luigi, anche se premetto di non conoscere bene i piani di keynes per quel che riguarda il sistema monetario internazionale: ciò che so di lui riguarda invece la sua dottrina economica in ambito di politica interna.
    Per quel che riguarda bretton woods si può riassumere brevemente così: un sistema monetario internazionale che si fonda su organismi di sorveglianza,riserva di valuta, e funzione di prestito (banca mondiale e Fondo monetario internazionale)volto a promuovere la crescita industriale dei paesi emergenti (soprattutto l'europa occidentale) e del terzo mondo. La credibilità del sistema era fornita dal tipo di moneta usata, cioè il dollaro convertibile in oro a cambio fisso. Questo sistema faceva leva su una indiscutibile prosperità e stabilità economica statunitense. Le economie emergenti potevano dare credibilità alla propria moneta relazionandola al dollaro con dei cambi fissi, o svalutarla avendo sempre quel riferimento.
    Il sistema inizia a incrinarsi quando gli stati uniti cominciano a spendere più di quanto non si possano permettere compiendo ambiziose politiche di promozione dei diritti civili (Johnson), di contenimento delle rivolte nel terzo mondo e l'aumento esagerato delle spese belliche della guerra in Vietnam. Gli USA, che nel sistema internazionale godevano il vantaggio di essere i produttori della valuta di scambio, cominciano a pagare le spese stampando banconote. A questo punto i governi europei hanno iniziato a lamentarsi di essere inondati di banconote americane sopravvalutate, e infatti si creavano delle reti di cambi clandestine in cui i dollari venivano scambiati con le monete nazionali a tassi di cambio molto minori rispetto a quelli ufficiali. Gli USA scaricavanoparte dell'onere del deficit sulle economie in cui finivano i dollari per gli investimenti. Questo ha portato le nazioni europee a chiedere che si assumessere le responsabilità monetarie che gli spettavano.

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  8. Un altro fattore di cambiamento è il declino della produzione industriale e l'aumento della concorrenza euro-giapponese: gli stati di nuova industrializzazione cominciano a essere esportatori, sottraendo quote di mercato agli USA, che sono ulteriormente svantaggiati da una moneta convertibile a tasso fisso e decisamente sovrapprezzata. Avevano bisogno quindi di una riforma che permettesse una svalutazione del dollaro per poter ridare fiato alla bilancia commerciale.
    Oltre alle pressioni degli ambienti industriali ci sono quelle dei gruppi finanziari, che si vedono aprire nuovi mercati e opportunità, ma trovano un sistema internazionale che pone freni alla circolazione dei capitali. L'abbattimento delle barriere di bretton woods ha permesso infatti la mobilitazione degli ingenti capitali che hanno portato alla crescita industriale delle "tigri asiatiche".
    Ultimo fattore è lo shock petrolifero in seguito al supporto dato a Israele, che l'OPEC non vede di buon occhio. I produttori mediorientali bloccano le esportazioni dirette agli Stati Uniti, catapultandoli in una crisi energetica ed economica che ha aspetti finanziari molto pesanti, come l'inflazione galoppante che in quegli anni raggiunge le due cifre.
    C'erano insomma molte ottime ragioni sul fatto che un sistema fondato sul ruolo di stabilizzatore e di assistenza del dollaro dovesse essere radicalmente riformato. L'opzione era quella di tornare a un sistema chiuso di cambi variabili fra valute, protezione dell'industria interna e riposizionamento in patria degli investimenti. Ma il fallimento di tali politiche quarant'anni prima aveva lasciato strascichi troppo pesanti con grande depressione e restrizioni della libertà in europa.
    Si è scelto quindi di assecondare l'opzione di una maggiore liberalizzazione e mobilitazione dei capitali, dando un impulso molto forte alla globalizzazione.
    c'erano altre strade? è possibile, ma sicuramente non era una scelta miope o irresponsabile, anche se ha avuto delle controindicazioni che si manifestano in questi anni (anno scorso e fra pochi).
    sicuramente era un cambiamento necessario, e le condizioni che hanno determinato tale necessità erano troppo grosse perchè si possa pensare fossero state studiate o pianificate. spero di essere stato esaustivo e non troppo noioso.

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