L'economia non possiede regole eterne. È accaduto, peraltro, in diverse fasi della storia, che milioni di uomini abbiano creduto nella loro immutabile valenza, tanto da farne articolo di fede. Quando ciò è avvenuto ne sono spesso derivati sconquassi catastrofici. Questa riflessione, di cui sono convinto da tempo, in particolare dopo il crollo del comunismo, mi ha stimolato qualche suggerimento in seguito alla lettura di due articoli di grande interesse, l' uno sul nostro giornale (6 giugno) di Joaquìn Navarro-Valls ("La marea nera e i falsi ambientalisti"), l' altro ("Corriere" del 6 giugno) di Claudio Magris su "I limiti (e i pregi) del capitalismo". La tesi del primo asserisce che il più enorme disastro ecologico mai avvenuto, quello del Golfo del Messico, è riconducibile ad «un sistema economico, il quale inevitabilmente potrebbe portare in futuro qualsiasi Paese a trovarsi in situazioni simili... la marea nera è il simbolo epocale dell' impotenza della politica... quando la più consolidata democrazia del mondo si trova inerte davanti alla onnipotenza delle multinazionali... il problema ecologico, insieme alle molte altre questioni cruciali... non può essere il vessillo di movimenti minoritari... l'alternativa è quanto mai chiara. O gli organismi internazionali, preposti alla elaborazione di regole valide per tutti, saranno in grado di stilare una tavola dei principi etici che devono indirizzare ovunque i comportamenti di tutti gli operatori economici oppure ci troveremo sempre davanti a democrazie fragili che non riescono a vincere la tendenza sovrana degli interessi globalizzati delle grandi corporation». Se il richiamo all' etica è in sé condivisibile, l' analisi di Navarro-Valls ne oltrepassa, però, il perimetro e indica nel venir meno della politica nella sua funzione di difesa degli interessi generali dell' umanità, il punto di rottura degli equilibri che ne assicurano un grado accettabile e vitale di convivenza. Questo venir meno della politica si verifica nella sua sopravvenuta incapacità di elaboraree imporre regole ai macro-fenomeni insorgenti e dilaganti con dinamiche assolutamente anarchiche. Per questo la marea nera del Golfo è assimilabile alla crisi finanziaria che dopo aver terremotato gli Stati Uniti rischia ora di far saltare l' euro. L' equazione è la stessa: dato un macro fenomeno sia esso ambientale, economico o altro, se la politica non riesce a monitorarlo e ad ordinarlo a monte, presto o tardi la sregolatezza delle pulsioni provoca deflagrazioni ingovernabili. Fino a qualche decennio fa non era così. Le regole che il mondo libero si era dato nel periodo post bellico assicuravano un progressivo benessere senza eccessivi traumi alle economie di mercato, temperate dal Welfare socialdemocratico. Il mondo del "socialismo reale" da Berlino a Vladivostok, pur soggetto a una dittatura che invadeva ogni spazio individuale e collettivo, appariva in lenta marcia verso un relativo miglioramento materiale, tramite una pianificazione pesante e burocratica, purtuttavia esente da crisi apparenti, grazie all' ammortizzatore dei bassi consumi. Malgrado la relativa modestia dei risultati, malgrado la violenza coercitiva del regime, malgrado l' emergere di uno spirito di rivolta che si sarebbe inverato in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia milioni e milioni di persone continuarono nel mondoa credere nella validità di un modello che aveva abolito lo sfruttamento capitalistico e prometteva in un futuro, più o meno prossimo, di richiedere da ognuno secondo le sue capacità e di dare a ciascuno secondoi suoi bisogni. Il più grande e prolungato esperimento dell' uomo di pianificare e costruire la propria storia con i metodi "scientifici" di una allucinata razionalità, minuziosamente regolata, si concludeva con l' auto disfacimento che si estendeva dal centro dell' impero alle province marginali, senza bisogno di interventi esterni. La via d' uscita, più strabiliante per la sua originalità, fu quella cinese, spietata nell' abbandono dei dogmi economici fondativi, sancita già nel 1981 dal comitato centrale, in anticipo sulla caduta del Muro, con una diagnosi impietosa sulla gestione di Mao: «Ha commesso errori di enorme portata e lunga durata... ha confuso ciò che era giusto con ciò che invece era sbagliato e ha scambiato il popolo con il nemico. In questo consiste la sua tragedia». Una sentenza che si attaglia a tutta l' esperienza comunista. Dal confronto risultò il trionfo mondiale dell' economia di mercato. Ad accentuare il suo prevalere concorse il susseguentee prolungato declino del modello social democratico in seguito alla crisi fiscale che ne rivelò l' onere economico crescente, una ipertrofia burocratica, una estensione troppo generalizzata i cui costi globali erano destinati a gonfiare in modo esorbitante il debito pubblico. Anche da questo versante sembrò venire un concorso convincente al prevalere di una contro-ideologia, opposta al pensiero socialista, sia di marca sovietica che riformista, una contro-ideologia capace però, anch' essa, di convincere milioni di persone del principio secondo cui più il mercato è libero, più il mondo è messo in grado di arricchirsi, di crescere, di godere di nuove scoperte e innovazioni, di far vivere meglio i cittadini, di colmare le diseguaglianze. Queste premesse-promesse s' inverarono in misura notevolissima per alcuni decenni, a cavallo del secondo millennio facilitate dal loro coincidere con la rivoluzione informatica che ne moltiplicava in modo esponenziale gli effetti. Si può persino affermare che la creazione inventiva di nuovi strumenti finanziari ha facilitato l' impressionante decollo di molti di quei paesi, un tempo denominati "in via di sviluppo": dalla Cina all' India, dal Brasile alla Corea del Sud, ormai in diretto confronto concorrenziale con le economie del primo mondo. In questa situazione il pensiero di sinistra non poteva che assorbire la sindrome del perdente, deprivato dei valori spendibili, afono di fronte ad un universo che non riusciva più a spiegare né, tanto meno, a interpretare. Per contro nel largo schieramento vincente l' ideologia del libero mercato finiva per far propria la presunzione dogmatica, tipica un tempo del comunismo: il pensiero unico assumeva una perennità esente da ogni prova, dopo la catastrofe delle pianificazioni socialiste in ogni loro variante. L' incapacità di una riflessione storicistica intrisa di relativismo, che permettesse di cogliere la natura degli enormi vantaggi del mercato ma anche la perigliosità catastrofica del suo anarchico dispiegarsi al di fuori di ogni regola, ha fatto sì che non si avvertissero le potenzialità devastanti di una creazione illimitata di strumenti di speculazione finanziaria, completamente avulsi dalla loro rispondenza alla creazione di ricchezze reali derivanti dalla produzione di beni e servizi. Altrettanto affetti da una lobotomia della ragione si sono rivelati governi, parlamenti, partiti e sindacati di fronte alla crescita sconsiderata dell' indebitamento pubblico, quasi vi fosse un salvatore nascosto di ultima istanza in grado alla fine di saldare il conto. Di fronte alla crisi impaurente che ci sovrasta, le ricette, soprattutto quelle europee, sembrano in partenza inefficaci, in parte dannose, soprattutto non risolutive. Anche le risposte e le proteste si dimostrano scontate e scarsamente coinvolgenti, soprattutto perché chi le promuove non si fa carico del pericolo, illudendosi di evitarne gli effetti. Eppure non ci sarà via d' uscita senza un nuovo pensiero economico che rifiuti in partenza di farsi dogma, ma si proponga, almeno per l' immediato futuro, di andare contro corrente, rifiuti la logica dello sviluppo ad oltranza per sussumere quella dello "sviluppo ragionevole e compatibile", misurabile nelle sue dimensioni e nei suoi effetti (ci sono 3000 pozzi nel Golfo del Messico, egualmente pericolosi a quello che è scoppiato, ma a nessuno è venuto in mente quale sarebbe il corrispettivo di spesa in termini di risparmio energetico). Occorre ripristinare il principio della priorità della politica sulla libera e anarchica scelta della banca e della finanza. Urge l' esigenza di riaprire una grande battaglia culturale perché non passino senza risposta diagnosi riduttive di ciò che sta accadendo. Ad esempio è ciò che colgo in una lettera aperta di Franco Debenedetti ed alcuni altri stimatissimi economisti "in difesa del mercato e degli operatori", in cui è detto: «Sostenere che sia il mercato e non chi ne abusa, a produrre opacità e instabilità, è una mistificazione». Nella mia pochezza accademica mi permetto di contestare questa affermazione: la speculazione può mettere in pericolo il mondo intero perché il meccanismo virtuoso del mercato, nell' era della globalizzazione, si è avvitato in dinamiche imprevedibili, fuori da ogni regola, controllo, capacità di freno, dissociate, anzi prevaricanti, su ogni potere politico. Non si tratta di reinventare il socialismo, anche se la sinistra avrebbe molto da dire, ma per riprendere Claudio Magris in un bella recensione ad uno scritto di Giovanni Bazoli, che abbiamo citato all' inizio, di riscoprire le regole, «quei meccanismi generali e freddi, necessari alla società civile affinché ognuno, rispettandoli e venendone tutelato, possa vivere serenamente la sua calda vita, come la chiamava Saba».
La Repubblica 17 giugno 2010
domenica 20 giugno 2010
La globalizzazione dell'operaio di Luciano Gallino
È POSSIBILE che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L'industria mondiale dell'auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente. AFARNE le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un'auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all'assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all'ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato. Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano - ben 15.000 se si conta l'indotto - è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l'azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta. Una volta riconosciuto che forse l'azienda non ha alternative, e non ce l'hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti. Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L'ultima mezz'ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L'azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all'anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l'orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzionea seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell'autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz'oraa fine turno - giusto quella della refezione - o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l'indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat. Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro." Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l'analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c'è l'uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l'adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale"). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un'azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall'altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L'ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot. È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell'ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s'intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello. È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l'anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.
La Repubblica 14 giugno 2010
La Repubblica 14 giugno 2010
martedì 12 gennaio 2010
La crisi economica e l'importanza degli studi umanistici
Sul finire del 2008, in visita alla London School of Economics, la Regina Elisabetta si rivolse ai più grandi economisti del Regno Unito chiedendo loro come mai soltanto pochi esperti avessero previsto la disastrosa crisi finanziaria che con violenza si è abbattuta sull’economia mondiale da due anni e mezzo a questa parte. Soltanto dieci autorevoli studiosi di economia politica inglesi, dopo cinquanta giorni, riuscirono a trovare una risposta per la Regina scrivendo che una delle ragioni principali dell'incapacità degli economisti della nostra epoca di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è da ricercare in una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: la scienza economica, relegando ad un ruolo marginale la storia economica, la filosofia e la psicologia e basandosi unicamente sul dogma dell’infallibilità del mercato sembra essere diventata, dunque, una branca delle matematiche applicate. Questi “scolastici del libero mercato”, acerrimi nemici dello Stato e della nazionalizzazione delle industrie, hanno ignorato per anni gli innumerevoli avvertimenti, provenienti dalle poche voci fuori dal coro, sulla pericolosa instabilità del sistema finanziario globale. Sostiene giustamente l’economista Lunghini («il manifesto», 18 novembre 2009) che «c'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza – l'orgogliosa consapevolezza – della dimensione politica dell'analisi economica». Ma tutto ciò è venuto colpevolmente a mancare negli ultimi decenni dove, invece, hanno prevalso analisi economiche basate su modelli matematici che, com’è purtroppo sotto gli occhi di tutti, si sono dimostrati del tutto incapaci di prevedere l’imminente disastro (la Lehman Brothers, per esempio, è fallita nonostante il suo nutrito staff di esperti economisti). Non c’è poi tanto da stupirsi, come sostiene l’economista Katia Caldari («il manifesto», 22 novembre 2009), se soltanto si pensa che già l'economista inglese Alfred Marshall sosteneva che la scienza economica riguarda l'uomo «di carne e di sangue», il quale non può assolutamente «scegliere e agire solo sulla base del calcolo dell'interesse personale; l'economia quindi non è riducibile a puro calcolo matematico e non è – né può essere – una scienza esatta, al pari della fisica. È una scienza inesatta che ha che fare con una materia molto complessa e aleatoria. Affidare la comprensione o previsione del futuro a un modello basato su una lunga lista di assunzioni irrealistiche non può che portare a delusioni».
Una deriva tecnicista, quella degli studi economici, che significa, come sostiene l’economista Becattini («il manifesto», 25 novembre 2009), una rinuncia o, se si vuole, una vera e propria negazione del compito principale dell'economista, che è quello «di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui “l'economia di mercato”, come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il “grande spreco” del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo “civilizzato”, questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato».
Il 4 gennaio 2010 è apparsa sul «Financial Times» una nuova ed aspra denuncia del fallimento formativo delle cosiddette business school, incapaci di prevedere la portata catastrofica della grande depressione economica in cui è precipitata l’economia mondiale. Il problema cruciale che la crisi finanziaria ha disvelato risiede, secondo l'articolista, nell'inadeguata formazione offerta dalle business school. Istituzioni che dovrebbero formare dirigenti di imprese e di istituzioni finanziarie ed economiche e che, per questo motivo, non dovrebbero soltanto curare il profilo tecnico e professionale dei propri allievi, ma anche e soprattutto ispirare alti valori etici a coloro che diventeranno una parte importante della futura classe dirigente. Sembra proprio che queste grandi scuole abbiano miseramente fallito poiché l’attuale classe dirigente, si afferma con decisione nell’articolo, non si cura affatto di perseguire, in maniera non egoistica ma disinteressata, l’interesse generale come invece dovrebbe se avesse piena coscienza di decidere la sorte, in alcuni casi, di miliardi di persone.
A questo proposito è giusto riportare la riflessione del prof. Giulio Sapelli che, in un articolo apparso sul «Corriere Economia» dell’11 gennaio 2010, ricorda come un testo classico sull'educazione della classe dirigente degli affari (dei sociologi Seymour Martin Lipset e di David Riesman, Education and Politics at Harvard: Two Essays Prepared for the Carnegie Commission on higher Education, 1975) mettesse in luce l’incapacità sostanziale dell’Università di Harvard di formare classi dirigenti poiché si era troppo insistito sull'istruzione specialistica e tecnica e non sull’educazione, sulla formazione del carattere, sulla formazione umanistica. Ma questo studio è stato coerentemente e pervicacemente rimosso dalle classi dirigenti americane tutte intente, invece, a lanciare l’intero Occidente verso una devastante euforia dei consumi e del benessere materiale, del progresso tecnologico e della riduzione del costo del lavoro, relegando la filosofia e la formazione umanistica, che pure in anni migliori avevano ispirato grandi imprese capitalistiche alla responsabilità sociale e alla produzione di beni e servizi, all’ultimo posto tra le discipline di studio, trasformando, in questo modo, irrimediabilmente il già troppo ristretto ceto finanziario (si tratta, come ha illustrato Luciano Gallino, di 120 mila persone al massimo, «una cifra che corrisponde sì e no alla popolazione d'un quartiere in una città di medie dimensioni» [Con i soldi degli altri p. 47]) che domina il mondo e ne decide le sorti in una cricca di briganti che, senza alcun rispetto per la dignità umana e senza alcuna cultura, sono pronti a tutto – delocalizzazioni delle imprese e licenziamenti in massa, improprie diversificazioni della produzione, costruzione di opere pubbliche dal catastrofico impatto ambientale, smaltimento criminale di rifiuti tossici, assalto ai servizi pubblici come l’acqua per imporre tasse esose ed insostenibili – pur di rispondere alle logiche del profitto finanziario e borsistico. L'egemonia culturale di questo pensiero, tutto basato su logiche di calcolo e di profitto ed indifferente al pubblico interesse e ai modi di realizzarlo, ha generato e continua a generare un particolare e sempre più diffuso tipo umano plasmato e atrofizzato nella personalità – impedita della sua possibilità di espansione e nella creatività – dal lavoro mercificato, dal piatto dominio della tecnologia sulle intelligenze e dall'«introiezione dell'obbligo di consumare» (L. Gallino, Con i soldi degli altri).
Qual è, poi, l’effetto materiale dalle più gravi conseguenze che questa idea di economia e di società ha causato?
Se da una parte è in corso una graduale scomparsa dello spirito pubblico ed una progressiva disintegrazione dello Stato e della funzione pubblica, delle istituzioni e delle amministrazioni, che rimanda a tempi oscuri della storia, dall’altra questo processo risulta dirompente nel mondo delle imprese e costituisce una delle ragioni principali dell’attuale crisi economica e delle sue conseguenze. Negli ultimi anni, l’impresa ha perso la funzione sociale legata alla produzione di beni e servizi concentrando la sua attività sull’ottimizzazione dei profitti nel più breve tempo possibile, al fine di massimizzare il guadagno dell’azionista e senza accollarsi alcun rischio d’impresa, come prevede il codice civile. Il ruolo dell’impresa risulta, dunque, distorto; essa viene finanziarizzata, socialmente deresponsabilizzata e funzionalizzata al profitto degli azionisti (a questo proposito sono importanti gli studi di L. Gallino: La scomparsa dell’Italia industriale, L’impresa irresponsabile, Con i soldi degli altri). Data questa impostazione, l’impresa non risulta più un organismo sociale con lo scopo di creare valore reale per un paese ma soltanto uno strumento di profitto – guidato dagli investitori istituzionali o operatori di borsa senza alcuno scrupolo né tantomeno alcuna responsabilità sociale che, invece, almeno in teoria hanno i manager super pagati – in cui tutte le parti possono essere sostituite in qualsiasi momento: dagli operai alla stessa produzione o alla localizzazione dell’impresa. Le ragioni di queste scelte sono sempre unicamente legate a motivi finanziari e non rispondono ad una coerenza logica o ad una precisa idea di impresa e di programmazione della produzione industriale. Queste arbitrarie scelte aziendali possono variare anche in modo repentino senza tener conto delle conseguenze ambientali e sociali spesso di grave rilevanza. Tutto questo provoca conseguenze devastanti nel tessuto sociale poiché se le Università non educano e non formano il carattere e non creano una profonda coscienza storica negli studenti non si potranno avere professionisti (scienziati, ricercatori, medici, avvocati, architetti, ingegneri…) pienamente consapevoli della loro funzione sociale, ma individui pronti soltanto a seguire le logiche, anche le più spietate, che portano soldi e garantiscono la carriera; un discorso simile di conseguenza sarà, purtroppo, valido anche per la classe politica. Questo è un aspetto che va sottolineato se è vero che «far crescere menti con aspirazioni e facoltà che si elevano dalla massa, capaci di guidare i compatrioti verso le alte vette della virtù, dell'intelligenza e del benessere comune: sono questi i fini per cui si auspicano università ben equipaggiate, i fini che tutte le università ben equipaggiate professano di perseguire. Grande è il disonore se, una volta intrapreso tale compito e attribuitosi il merito di realizzarlo, esse in realtà lo lasciano incompiuto» (John Stuart Mill).
Questo pensiero dominante, se si osservano le tendenze delle politiche mondiali operate dalle grandi corporations in materia di armi di distruzione di massa, farmaci e generi alimentari, può soltanto portarci alla guerra… una guerra che, in realtà, perderemo tutti se la dignità dell’uomo, del suo infinito spirito di creazione e della sua storia non riusciranno a farsi giustizia degli spiriti animali e dell’habendi rabies di un ceto di questo ristretto ceto di rapinatori che domina il pianeta. Non si potranno ignorare ancora a lungo, infatti, questioni vitali come il riscaldamento climatico, lo sfruttamento intensivo delle miniere e l’inquinamento delle falde acquifere e della terra – con conseguenze terribili per la salute umana – causate da un processo industriale criminale e dedito unicamente al profitto e allo sfruttamento distruttivo e sconsiderato delle risorse naturali ed umane «con la complicità e il permesso dei governi dove queste imprese operano. Il Mahatma Gandhi con la sua saggezza e la sua esperienza diceva che: “La Terra offre risorse sufficienti per i bisogni di tutti ma non per l’avidità di alcuni”» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «l’Unità», 18 novembre 2009). «Diceva Albert Einstein: “Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana”. Ma si dovrebbe aggiungerne una terza: la crudeltà di cui sono capaci gli uomini» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «la Repubblica», 31 dicembre 2008).
È un discorso che potrebbe sembrare apocalittico se non si considera che mentre vi sono nel mondo pochi milioni di individui che guadagnano oltre 1000 dollari l'ora vi è un miliardo di persone (un sesto dell'umanità [cito i rapporti Fao e Onu 2009]) che non ha accesso al cibo e all’acqua e 2,6 miliardi di persone prive di servizi igienico-sanitari di base; un discorso che potrebbe sembrare assurdo se non si riflette sul fatto che in Italia il 10% delle famiglie ricche possiede il 50% della ricchezza nazionale; un discorso che potrebbe sembrare esagerato se non si pensa che in una città come Milano, mentre in Italia vi sono 3 milioni di persone che hanno soltanto 50 euro al mese per mangiare, si buttano 180 quintali di pane al giorno; un discorso inaccettabile nel secolo XXI se non si osserva come nel nostro Paese, dove il diritto al lavoro e il massimo rispetto per chi lavora dovrebbero essere al primo posto, vi sono immigrati clandestini che si spaccano la schiena nelle nostre campagne, per 14 ore al giorno, ricevendo la miseria di 20 euro al giorno con una tassa di 5 euro al “caporale” che li fa lavorare.
Un discorso che potrebbe sembrare apocalittico, assurdo, esagerato, inaccettabile, ma, forse, non più della realtà che cerca velleitariamente di raccontare.
Antonio Polichetti
Una deriva tecnicista, quella degli studi economici, che significa, come sostiene l’economista Becattini («il manifesto», 25 novembre 2009), una rinuncia o, se si vuole, una vera e propria negazione del compito principale dell'economista, che è quello «di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui “l'economia di mercato”, come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il “grande spreco” del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo “civilizzato”, questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato».
Il 4 gennaio 2010 è apparsa sul «Financial Times» una nuova ed aspra denuncia del fallimento formativo delle cosiddette business school, incapaci di prevedere la portata catastrofica della grande depressione economica in cui è precipitata l’economia mondiale. Il problema cruciale che la crisi finanziaria ha disvelato risiede, secondo l'articolista, nell'inadeguata formazione offerta dalle business school. Istituzioni che dovrebbero formare dirigenti di imprese e di istituzioni finanziarie ed economiche e che, per questo motivo, non dovrebbero soltanto curare il profilo tecnico e professionale dei propri allievi, ma anche e soprattutto ispirare alti valori etici a coloro che diventeranno una parte importante della futura classe dirigente. Sembra proprio che queste grandi scuole abbiano miseramente fallito poiché l’attuale classe dirigente, si afferma con decisione nell’articolo, non si cura affatto di perseguire, in maniera non egoistica ma disinteressata, l’interesse generale come invece dovrebbe se avesse piena coscienza di decidere la sorte, in alcuni casi, di miliardi di persone.
A questo proposito è giusto riportare la riflessione del prof. Giulio Sapelli che, in un articolo apparso sul «Corriere Economia» dell’11 gennaio 2010, ricorda come un testo classico sull'educazione della classe dirigente degli affari (dei sociologi Seymour Martin Lipset e di David Riesman, Education and Politics at Harvard: Two Essays Prepared for the Carnegie Commission on higher Education, 1975) mettesse in luce l’incapacità sostanziale dell’Università di Harvard di formare classi dirigenti poiché si era troppo insistito sull'istruzione specialistica e tecnica e non sull’educazione, sulla formazione del carattere, sulla formazione umanistica. Ma questo studio è stato coerentemente e pervicacemente rimosso dalle classi dirigenti americane tutte intente, invece, a lanciare l’intero Occidente verso una devastante euforia dei consumi e del benessere materiale, del progresso tecnologico e della riduzione del costo del lavoro, relegando la filosofia e la formazione umanistica, che pure in anni migliori avevano ispirato grandi imprese capitalistiche alla responsabilità sociale e alla produzione di beni e servizi, all’ultimo posto tra le discipline di studio, trasformando, in questo modo, irrimediabilmente il già troppo ristretto ceto finanziario (si tratta, come ha illustrato Luciano Gallino, di 120 mila persone al massimo, «una cifra che corrisponde sì e no alla popolazione d'un quartiere in una città di medie dimensioni» [Con i soldi degli altri p. 47]) che domina il mondo e ne decide le sorti in una cricca di briganti che, senza alcun rispetto per la dignità umana e senza alcuna cultura, sono pronti a tutto – delocalizzazioni delle imprese e licenziamenti in massa, improprie diversificazioni della produzione, costruzione di opere pubbliche dal catastrofico impatto ambientale, smaltimento criminale di rifiuti tossici, assalto ai servizi pubblici come l’acqua per imporre tasse esose ed insostenibili – pur di rispondere alle logiche del profitto finanziario e borsistico. L'egemonia culturale di questo pensiero, tutto basato su logiche di calcolo e di profitto ed indifferente al pubblico interesse e ai modi di realizzarlo, ha generato e continua a generare un particolare e sempre più diffuso tipo umano plasmato e atrofizzato nella personalità – impedita della sua possibilità di espansione e nella creatività – dal lavoro mercificato, dal piatto dominio della tecnologia sulle intelligenze e dall'«introiezione dell'obbligo di consumare» (L. Gallino, Con i soldi degli altri).
Qual è, poi, l’effetto materiale dalle più gravi conseguenze che questa idea di economia e di società ha causato?
Se da una parte è in corso una graduale scomparsa dello spirito pubblico ed una progressiva disintegrazione dello Stato e della funzione pubblica, delle istituzioni e delle amministrazioni, che rimanda a tempi oscuri della storia, dall’altra questo processo risulta dirompente nel mondo delle imprese e costituisce una delle ragioni principali dell’attuale crisi economica e delle sue conseguenze. Negli ultimi anni, l’impresa ha perso la funzione sociale legata alla produzione di beni e servizi concentrando la sua attività sull’ottimizzazione dei profitti nel più breve tempo possibile, al fine di massimizzare il guadagno dell’azionista e senza accollarsi alcun rischio d’impresa, come prevede il codice civile. Il ruolo dell’impresa risulta, dunque, distorto; essa viene finanziarizzata, socialmente deresponsabilizzata e funzionalizzata al profitto degli azionisti (a questo proposito sono importanti gli studi di L. Gallino: La scomparsa dell’Italia industriale, L’impresa irresponsabile, Con i soldi degli altri). Data questa impostazione, l’impresa non risulta più un organismo sociale con lo scopo di creare valore reale per un paese ma soltanto uno strumento di profitto – guidato dagli investitori istituzionali o operatori di borsa senza alcuno scrupolo né tantomeno alcuna responsabilità sociale che, invece, almeno in teoria hanno i manager super pagati – in cui tutte le parti possono essere sostituite in qualsiasi momento: dagli operai alla stessa produzione o alla localizzazione dell’impresa. Le ragioni di queste scelte sono sempre unicamente legate a motivi finanziari e non rispondono ad una coerenza logica o ad una precisa idea di impresa e di programmazione della produzione industriale. Queste arbitrarie scelte aziendali possono variare anche in modo repentino senza tener conto delle conseguenze ambientali e sociali spesso di grave rilevanza. Tutto questo provoca conseguenze devastanti nel tessuto sociale poiché se le Università non educano e non formano il carattere e non creano una profonda coscienza storica negli studenti non si potranno avere professionisti (scienziati, ricercatori, medici, avvocati, architetti, ingegneri…) pienamente consapevoli della loro funzione sociale, ma individui pronti soltanto a seguire le logiche, anche le più spietate, che portano soldi e garantiscono la carriera; un discorso simile di conseguenza sarà, purtroppo, valido anche per la classe politica. Questo è un aspetto che va sottolineato se è vero che «far crescere menti con aspirazioni e facoltà che si elevano dalla massa, capaci di guidare i compatrioti verso le alte vette della virtù, dell'intelligenza e del benessere comune: sono questi i fini per cui si auspicano università ben equipaggiate, i fini che tutte le università ben equipaggiate professano di perseguire. Grande è il disonore se, una volta intrapreso tale compito e attribuitosi il merito di realizzarlo, esse in realtà lo lasciano incompiuto» (John Stuart Mill).
Questo pensiero dominante, se si osservano le tendenze delle politiche mondiali operate dalle grandi corporations in materia di armi di distruzione di massa, farmaci e generi alimentari, può soltanto portarci alla guerra… una guerra che, in realtà, perderemo tutti se la dignità dell’uomo, del suo infinito spirito di creazione e della sua storia non riusciranno a farsi giustizia degli spiriti animali e dell’habendi rabies di un ceto di questo ristretto ceto di rapinatori che domina il pianeta. Non si potranno ignorare ancora a lungo, infatti, questioni vitali come il riscaldamento climatico, lo sfruttamento intensivo delle miniere e l’inquinamento delle falde acquifere e della terra – con conseguenze terribili per la salute umana – causate da un processo industriale criminale e dedito unicamente al profitto e allo sfruttamento distruttivo e sconsiderato delle risorse naturali ed umane «con la complicità e il permesso dei governi dove queste imprese operano. Il Mahatma Gandhi con la sua saggezza e la sua esperienza diceva che: “La Terra offre risorse sufficienti per i bisogni di tutti ma non per l’avidità di alcuni”» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «l’Unità», 18 novembre 2009). «Diceva Albert Einstein: “Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana”. Ma si dovrebbe aggiungerne una terza: la crudeltà di cui sono capaci gli uomini» (Vedi Adolfo Perez Esquivel, «la Repubblica», 31 dicembre 2008).
È un discorso che potrebbe sembrare apocalittico se non si considera che mentre vi sono nel mondo pochi milioni di individui che guadagnano oltre 1000 dollari l'ora vi è un miliardo di persone (un sesto dell'umanità [cito i rapporti Fao e Onu 2009]) che non ha accesso al cibo e all’acqua e 2,6 miliardi di persone prive di servizi igienico-sanitari di base; un discorso che potrebbe sembrare assurdo se non si riflette sul fatto che in Italia il 10% delle famiglie ricche possiede il 50% della ricchezza nazionale; un discorso che potrebbe sembrare esagerato se non si pensa che in una città come Milano, mentre in Italia vi sono 3 milioni di persone che hanno soltanto 50 euro al mese per mangiare, si buttano 180 quintali di pane al giorno; un discorso inaccettabile nel secolo XXI se non si osserva come nel nostro Paese, dove il diritto al lavoro e il massimo rispetto per chi lavora dovrebbero essere al primo posto, vi sono immigrati clandestini che si spaccano la schiena nelle nostre campagne, per 14 ore al giorno, ricevendo la miseria di 20 euro al giorno con una tassa di 5 euro al “caporale” che li fa lavorare.
Un discorso che potrebbe sembrare apocalittico, assurdo, esagerato, inaccettabile, ma, forse, non più della realtà che cerca velleitariamente di raccontare.
Antonio Polichetti
giovedì 10 dicembre 2009
La critica al neoliberismo di Noam Chomsky
“Crisi globale dell’economia”, è questa una delle espressioni più diffuse che hanno riempito le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali negli ultimi due anni. Perché? Che cosa è successo?
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti, pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi, la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri, professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti, il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la “Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo Studio di Pianificazione Politica n°23), scritto da George Kennan, capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita, le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza, libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste linee guida, la chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”,infatti, era stato affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto da porre alla definizione di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il 1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato ‘Parlamento Virtuale’: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[] Così in tutto il mondo,si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso spiega due fatti:
A) il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B) le industrie delle multinazionali americane hanno sempre sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che “egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti, le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente, come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?
di Matteo De Laurentis
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti, pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi, la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri, professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti, il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la “Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo Studio di Pianificazione Politica n°23), scritto da George Kennan, capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita, le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza, libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste linee guida, la chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”,infatti, era stato affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto da porre alla definizione di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il 1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali social democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato ‘Parlamento Virtuale’: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[] Così in tutto il mondo,si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso spiega due fatti:
A) il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B) le industrie delle multinazionali americane hanno sempre sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che “egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti, le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente, come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?
di Matteo De Laurentis
lunedì 7 dicembre 2009
La legge dell'est
Nato negli anni Venti dopo la Rivoluzione d'Ottobre il sistema giuridico sovietico è stato preso a modello nella definizione dei diritti sociali di cittadinanza nei paesi del capitalismo occidentale
Nel dicembre del 1887, dopo pochi mesi di frequenza, un giovane studente di origini piccolo borghesi fu espulso dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università imperiale di Kazan in Russia. Frequentava circoli anti-zaristi. Le cose gli erano andate meglio rispetto al fratello, giustiziato poco prima per un attentato allo Zar. Il giovane, Vladimir Ilich Ulianov, era un tipo determinato. Fece domanda di riammissione a Kazan, ma la domanda venne respinta. Fece domanda per andare a studiare all'estero, ma anche questa non fu accolta. Finalmente riuscì ad iscriversi, come «studente esterno» ossia senza diritto di frequenza, all'Università di San Pietroburgo. Nel 1891, il giovane Ulianov si presentò per sostenere l'esame di avvocato. Ricevette il massimo voto in tutte le materie: l'unico candidato del suo anno a raggiungere tale eccellenza. A dispetto del brillante avvio, Ulianov non era destinato a una luminosa carriera forense.
Meno di una generazione dopo aver dimostrato di conoscere il diritto zarista meglio di tutti, Ulianov, ormai noto come Lenin, lo abolì interamente con un tratto di penna. Incominciava, circondato da inenarrabili difficoltà, un itinerario nella creazione di un nuovo ordine giuridico, il cui impatto globale continuò fino a vent'anni fa, consentendo al mondo giuridico occidentale di raggiungere lo zenith della sua civiltà.
La legalità sovietica
Non credo esista un aspirante avvocato (o notaio o magistrato) che, durante la preparazione del suo esame, non odii l'oggetto del suo studio fino al punto di desiderarne, anche solo per un momento, la sua abolizione. Né credo esista una più efficace descrizione dell'atteggiamento di un rivoluzionario rispetto al diritto di quella che si trova in Voltaire: «Volete buone leggi? Buttate tutte quelle che avete e createne delle nuove». Non molti tuttavia sanno che tale anelito diffuso (lo si ritrova tale e quale nella retorica dei primi anni della Rivoluzione Americana sbeffeggiata da Grant Gilmore) fu soddisfatto dai bolscevichi in modo più avanzato e costruttivo di quanto non sia mai riuscito a chiunque altro. Un esperimento di costruzione di una nuova giuridicità che non ha mai avuto parti per tutto il Novecento.
Mi pare risponda ad una necessità di verità storica, proprio nel periodo in cui siamo circondati da mediocre letteratura celebrativa della rivoluzione del 1989 che spunta, guarda caso, copiosa proprio in concomitanza con lo straparlare sulla fine della crisi, ripercorrere almeno per brevissimi cenni, il contributo dato all'ordine giuridico globale dai settant'anni di sviluppo della legalità socialista. Ciò non solo per finire il trittico di esperienze giuridice «altre» pubblicato su queste pagine (Il manifesto del 30 settembre e del 15 novembre), ma soprattutto per superare un'immagine della legalità socialista che ancor oggi, a vent'anni dalla fine della Guerra Fredda, risente della più becera propaganda atlantista. Infatti, durante la Guerra fredda autori come Hayek, Rostow, o Roscoe Pound e successivamente innumerevoli cantori sulla scia di Fukuyama hanno costruito un feticcio di legalità occidentale in contrapposizione con l'(il)legalità socialista.
I processi alla Lubianka
La costruzione dell'immagine dominante di legalità occidentale non passa soltanto attraverso la «mancanza» di legalità nell'altro contemporaneo, dalla Cina al mondo islamico, ma si fonda soprattutto nel rifiuto di riconoscere il contributo del socialismo realizzato alla nostra stessa esperienza giuridica, quindi attraverso un diniego dell'esperienza storica realizzata non soltanto in Unione Sovietica ma anche da noi in passato. Parlando nel 1990, Bush padre dichiarava che, «con l'Unione Sovietica finalmente scomparsa», gli Stati Uniti avrebbero «costruito un mondo in cui il regime di legalità avrebbe sostituito la legge della giungla, un mondo in cui le nazioni riconoscono le responsabilità condivise per la libertà e la giustizia, un mondo dove il più forte rispetta il diritto del più debole».
Si tratta adesso di far finalmente giustizia di questa idea della legalità socialista come «legge della giungla» accompagnata da truculente immagini di processi sommari condotti alla Lubianka, o nella periferia Africana dal Negus rosso durante il terrore del Derg. È chiaro che ci si incammina su una strada non facile perché quello che ci interessa è proprio ristabilire il contributo del socialismo realizzato (con stalinismo e tutto il resto) alla legalità internazionale e non il contributo di civiltà dell'ideale socialista, il che è tanto più facile e scontato quanto meno interessante. In effetti non è sufficiente cimentarsi sulla tragica diatriba degli anni trenta che costò la vita a Evgeny Pashukanis, autore di un fondamentale The General Theory of Law and Marxism, caduto in disgrazia a seguito della polemica con il grande inquisitore Andrey Vishinsky, sulla sparizione necessaria o meno del diritto (e quindi sul suo ruolo e su quello dello Stato) nella transizione fra il socialismo e il comunismo.
Voglio piuttosto mostrare come le idee giuridiche di Lenin abbiano portato ad una riscrittura incredibilmnte avanzata del diritto nuovo, promulgando leggi volte finalmente alla liberazione e non all'oppressione. Mi sembra che specchiarsi in questo diritto abbia obbligato il capitalismo a trasformare profondamente le proprie istituzioni giuridiche di sfruttamento economico in direzione più inclusiva e rispettosa della persona. È ovvio che la diversa narrativa che intendo proporre condivide l'analisi e la valutazione di Angelo d'Orsi sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino sulla civiltà giuridica, il che ci obbliga oggi ad un immane sforzo ricostruttivo perchè il capitalismo non ha più incentivi internazionali a mostrare un volto civile.
Una costituzione da studiare
La legislazione bolscevica iniziò fin dal 1917 a farsi carico delle condizioni della popolazione sovietica. Lenin sognava un sistema fondato sul diritto ad un tetto sulla testa, a cure mediche gratuite e ad un lavoro. Nessun governo nella storia si era mai prima fatto carico di simili responsabilità sociali. Prima degli anni Venti, quando ancora l'industrializzazione era lontana, la legge garantì il posto di lavoro in un momento storico in cui in Occidente il padrone poteva licenziare il lavoratore in qualunque momento. I lavoratori sovietici avevano diritto all'assicurazione medica a spese del datore di lavoro, a benefici in caso di inabilità al lavoro, a periodi significativi di riposo retribuito durante la malattia. La giornata lavorativa ricevette un limite di otto ore per sei giorni la settimana (ridotte a 7 nel 1928) quando ancora negli Stati Uniti era incostituzionale limitare per legge l'orario di lavoro per i fanciulli. Si andava in pensione dai lavori usuranti a 50 anni, e si istituirono scuole di formazione permanente, gratuite, in cui i lavoratori potessero conseguire titoli medi e superiori. Nacque il quei primissimi anni la contrattazione collettiva di lavoro e furono istituite forme di democrazia industriale. Un sostenuto programma di nazionalizzazioni rese effettivi questi diritti, soprattutto quello all'impiego. Durante la crisi del '29 quando la disoccupazione raggiunse cifre da capogiro in Occidente, l'economia sovietica vantava livelli occupazionali altissimi.
Le donne ricevettero un livello di protezione giuridica che altrove fu raggiunta, quando raggiunta, mezzo secolo più tardi. Per esempio, alle madri sole con figli a carico fu garantito trattamento preferenziale, impiego vicino casa, e asili gratuiti di supporto. Tutti questi diritti, inclusi quelli alla pari retribuzione fra i generi, vennero costituzionalizzati per la prima volta da Stalin nel '36. Già dal '17 si cercò di rendere effettivo il diritto ala casa mediante moratoria sugli affitti e, poco dopo, equo canone. Le industrie dovevano offrire casa ai lavoratori. Dal 1921 nelle case nazionalizzate il lavoratore non doveva pagare né affitto né spese. Impressonanti programmi di edilizia pubblica risolsero, seppur in maniera insoddisfacente, il problema della casa già con l'industrializazione degli anni Trenta.
Lo scontento del quarto stato
I progressi rispetto alla legislazione occidentale furono altrettanto significativi in altri settori: l'eguaglianza fra gli sposi, il divorzio e l'aborto, introdotti senza restrizioni già nel 1917. Le donne avevano il diritto ad assentarsi per maternità conservando il posto di lavoro. Già dal 1918 oltre mezzo secolo prima che in Italia i bambini nati fuori dal matrimonio si videro riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. Nel diritto penale Lenin si sforzò di rendere effettivo il principio di rieducazone dovuto alla concezione del crimine come prodotto delle condizioni sociali. Le pene furono radicalmete ridotte, il carcere sostituito da campi di rieducazione in cui si poteva imparare un lavoro. L'eutanasia fu depenalizzata e così la sodomia fin dal 1920. Importanti programmi, informati alla tutela dei diritti delle lavoratrici del sesso, vennero istituiti per risolvere il problema della prostituzione. Nel diritto internazionale il governo sovietico denunciò la prassi dei trattati segreti pubbicandone oltre 100 conclusi dallo Zar ai danni dei più varii popoli. Nel 1919 il governo bolscevico rinunciò a tutti i suoi privilegi internazionali comprese capitolazioni e extraterritorialità di cui godeva in Persia, Cina, Afghanistan e Turchia.
Questo insieme di legge nazionali gettarono nel panico le Cancellerie occidentali alle prese con lo scontento del quarto stato. La risposta a questo stato di cose generò una trasformazione giuridica che sembrava definitive anche in Italia ancora quando, nei primi anni Ottanta, frequentavo la facoltà di Giurisprudenza da studente (statuto lavoratori, equo canone, legge sulla casa). Subito dopo la conferenza di Versailles, nel primo dopoguerra, nacque l'Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) e il modello sovietico ispirò gli aspetti più sociali delle Costituzioni del secondo dopoguerra, nonché gli aspetti che oggi sembrano più utopistici della Carta delle Nazioni Unite e della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo. La legislazione sovietica guidò la trasformazione nella concezione occidentale del diritto internazionale (inclusa la decolonizzazione), del diritto di famiglia, del diritto penale, del diritto contrattuale, di quello di proprietà e perfino della desegregazione razziale negli Stati Uniti. Nell'Occidente capitalista il rapporto fra diritto privato e diritto pubblico uscì sconvolto a favore di quest'ultimo. Con il muro di Berlino e con l'epurazione dei giuristi della Germania Est che seguì l'unificazione, caddero non soltanto un ideale ma l'anelito all'incusione sociale tramite il diritto che sopravviveva nella Repubblica democratica tedesca.
Senza incentivi esterni, in nome della flessibilità, dell'efficienza e del mercato siamo tornati all'autoritarismo bigotto dei padroni delle miniere, che esportiamo sotto la voce democrazia.
di Ugo Mattei, «il manifesto», 5 dicembre 2009
Nel dicembre del 1887, dopo pochi mesi di frequenza, un giovane studente di origini piccolo borghesi fu espulso dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università imperiale di Kazan in Russia. Frequentava circoli anti-zaristi. Le cose gli erano andate meglio rispetto al fratello, giustiziato poco prima per un attentato allo Zar. Il giovane, Vladimir Ilich Ulianov, era un tipo determinato. Fece domanda di riammissione a Kazan, ma la domanda venne respinta. Fece domanda per andare a studiare all'estero, ma anche questa non fu accolta. Finalmente riuscì ad iscriversi, come «studente esterno» ossia senza diritto di frequenza, all'Università di San Pietroburgo. Nel 1891, il giovane Ulianov si presentò per sostenere l'esame di avvocato. Ricevette il massimo voto in tutte le materie: l'unico candidato del suo anno a raggiungere tale eccellenza. A dispetto del brillante avvio, Ulianov non era destinato a una luminosa carriera forense.
Meno di una generazione dopo aver dimostrato di conoscere il diritto zarista meglio di tutti, Ulianov, ormai noto come Lenin, lo abolì interamente con un tratto di penna. Incominciava, circondato da inenarrabili difficoltà, un itinerario nella creazione di un nuovo ordine giuridico, il cui impatto globale continuò fino a vent'anni fa, consentendo al mondo giuridico occidentale di raggiungere lo zenith della sua civiltà.
La legalità sovietica
Non credo esista un aspirante avvocato (o notaio o magistrato) che, durante la preparazione del suo esame, non odii l'oggetto del suo studio fino al punto di desiderarne, anche solo per un momento, la sua abolizione. Né credo esista una più efficace descrizione dell'atteggiamento di un rivoluzionario rispetto al diritto di quella che si trova in Voltaire: «Volete buone leggi? Buttate tutte quelle che avete e createne delle nuove». Non molti tuttavia sanno che tale anelito diffuso (lo si ritrova tale e quale nella retorica dei primi anni della Rivoluzione Americana sbeffeggiata da Grant Gilmore) fu soddisfatto dai bolscevichi in modo più avanzato e costruttivo di quanto non sia mai riuscito a chiunque altro. Un esperimento di costruzione di una nuova giuridicità che non ha mai avuto parti per tutto il Novecento.
Mi pare risponda ad una necessità di verità storica, proprio nel periodo in cui siamo circondati da mediocre letteratura celebrativa della rivoluzione del 1989 che spunta, guarda caso, copiosa proprio in concomitanza con lo straparlare sulla fine della crisi, ripercorrere almeno per brevissimi cenni, il contributo dato all'ordine giuridico globale dai settant'anni di sviluppo della legalità socialista. Ciò non solo per finire il trittico di esperienze giuridice «altre» pubblicato su queste pagine (Il manifesto del 30 settembre e del 15 novembre), ma soprattutto per superare un'immagine della legalità socialista che ancor oggi, a vent'anni dalla fine della Guerra Fredda, risente della più becera propaganda atlantista. Infatti, durante la Guerra fredda autori come Hayek, Rostow, o Roscoe Pound e successivamente innumerevoli cantori sulla scia di Fukuyama hanno costruito un feticcio di legalità occidentale in contrapposizione con l'(il)legalità socialista.
I processi alla Lubianka
La costruzione dell'immagine dominante di legalità occidentale non passa soltanto attraverso la «mancanza» di legalità nell'altro contemporaneo, dalla Cina al mondo islamico, ma si fonda soprattutto nel rifiuto di riconoscere il contributo del socialismo realizzato alla nostra stessa esperienza giuridica, quindi attraverso un diniego dell'esperienza storica realizzata non soltanto in Unione Sovietica ma anche da noi in passato. Parlando nel 1990, Bush padre dichiarava che, «con l'Unione Sovietica finalmente scomparsa», gli Stati Uniti avrebbero «costruito un mondo in cui il regime di legalità avrebbe sostituito la legge della giungla, un mondo in cui le nazioni riconoscono le responsabilità condivise per la libertà e la giustizia, un mondo dove il più forte rispetta il diritto del più debole».
Si tratta adesso di far finalmente giustizia di questa idea della legalità socialista come «legge della giungla» accompagnata da truculente immagini di processi sommari condotti alla Lubianka, o nella periferia Africana dal Negus rosso durante il terrore del Derg. È chiaro che ci si incammina su una strada non facile perché quello che ci interessa è proprio ristabilire il contributo del socialismo realizzato (con stalinismo e tutto il resto) alla legalità internazionale e non il contributo di civiltà dell'ideale socialista, il che è tanto più facile e scontato quanto meno interessante. In effetti non è sufficiente cimentarsi sulla tragica diatriba degli anni trenta che costò la vita a Evgeny Pashukanis, autore di un fondamentale The General Theory of Law and Marxism, caduto in disgrazia a seguito della polemica con il grande inquisitore Andrey Vishinsky, sulla sparizione necessaria o meno del diritto (e quindi sul suo ruolo e su quello dello Stato) nella transizione fra il socialismo e il comunismo.
Voglio piuttosto mostrare come le idee giuridiche di Lenin abbiano portato ad una riscrittura incredibilmnte avanzata del diritto nuovo, promulgando leggi volte finalmente alla liberazione e non all'oppressione. Mi sembra che specchiarsi in questo diritto abbia obbligato il capitalismo a trasformare profondamente le proprie istituzioni giuridiche di sfruttamento economico in direzione più inclusiva e rispettosa della persona. È ovvio che la diversa narrativa che intendo proporre condivide l'analisi e la valutazione di Angelo d'Orsi sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino sulla civiltà giuridica, il che ci obbliga oggi ad un immane sforzo ricostruttivo perchè il capitalismo non ha più incentivi internazionali a mostrare un volto civile.
Una costituzione da studiare
La legislazione bolscevica iniziò fin dal 1917 a farsi carico delle condizioni della popolazione sovietica. Lenin sognava un sistema fondato sul diritto ad un tetto sulla testa, a cure mediche gratuite e ad un lavoro. Nessun governo nella storia si era mai prima fatto carico di simili responsabilità sociali. Prima degli anni Venti, quando ancora l'industrializzazione era lontana, la legge garantì il posto di lavoro in un momento storico in cui in Occidente il padrone poteva licenziare il lavoratore in qualunque momento. I lavoratori sovietici avevano diritto all'assicurazione medica a spese del datore di lavoro, a benefici in caso di inabilità al lavoro, a periodi significativi di riposo retribuito durante la malattia. La giornata lavorativa ricevette un limite di otto ore per sei giorni la settimana (ridotte a 7 nel 1928) quando ancora negli Stati Uniti era incostituzionale limitare per legge l'orario di lavoro per i fanciulli. Si andava in pensione dai lavori usuranti a 50 anni, e si istituirono scuole di formazione permanente, gratuite, in cui i lavoratori potessero conseguire titoli medi e superiori. Nacque il quei primissimi anni la contrattazione collettiva di lavoro e furono istituite forme di democrazia industriale. Un sostenuto programma di nazionalizzazioni rese effettivi questi diritti, soprattutto quello all'impiego. Durante la crisi del '29 quando la disoccupazione raggiunse cifre da capogiro in Occidente, l'economia sovietica vantava livelli occupazionali altissimi.
Le donne ricevettero un livello di protezione giuridica che altrove fu raggiunta, quando raggiunta, mezzo secolo più tardi. Per esempio, alle madri sole con figli a carico fu garantito trattamento preferenziale, impiego vicino casa, e asili gratuiti di supporto. Tutti questi diritti, inclusi quelli alla pari retribuzione fra i generi, vennero costituzionalizzati per la prima volta da Stalin nel '36. Già dal '17 si cercò di rendere effettivo il diritto ala casa mediante moratoria sugli affitti e, poco dopo, equo canone. Le industrie dovevano offrire casa ai lavoratori. Dal 1921 nelle case nazionalizzate il lavoratore non doveva pagare né affitto né spese. Impressonanti programmi di edilizia pubblica risolsero, seppur in maniera insoddisfacente, il problema della casa già con l'industrializazione degli anni Trenta.
Lo scontento del quarto stato
I progressi rispetto alla legislazione occidentale furono altrettanto significativi in altri settori: l'eguaglianza fra gli sposi, il divorzio e l'aborto, introdotti senza restrizioni già nel 1917. Le donne avevano il diritto ad assentarsi per maternità conservando il posto di lavoro. Già dal 1918 oltre mezzo secolo prima che in Italia i bambini nati fuori dal matrimonio si videro riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. Nel diritto penale Lenin si sforzò di rendere effettivo il principio di rieducazone dovuto alla concezione del crimine come prodotto delle condizioni sociali. Le pene furono radicalmete ridotte, il carcere sostituito da campi di rieducazione in cui si poteva imparare un lavoro. L'eutanasia fu depenalizzata e così la sodomia fin dal 1920. Importanti programmi, informati alla tutela dei diritti delle lavoratrici del sesso, vennero istituiti per risolvere il problema della prostituzione. Nel diritto internazionale il governo sovietico denunciò la prassi dei trattati segreti pubbicandone oltre 100 conclusi dallo Zar ai danni dei più varii popoli. Nel 1919 il governo bolscevico rinunciò a tutti i suoi privilegi internazionali comprese capitolazioni e extraterritorialità di cui godeva in Persia, Cina, Afghanistan e Turchia.
Questo insieme di legge nazionali gettarono nel panico le Cancellerie occidentali alle prese con lo scontento del quarto stato. La risposta a questo stato di cose generò una trasformazione giuridica che sembrava definitive anche in Italia ancora quando, nei primi anni Ottanta, frequentavo la facoltà di Giurisprudenza da studente (statuto lavoratori, equo canone, legge sulla casa). Subito dopo la conferenza di Versailles, nel primo dopoguerra, nacque l'Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) e il modello sovietico ispirò gli aspetti più sociali delle Costituzioni del secondo dopoguerra, nonché gli aspetti che oggi sembrano più utopistici della Carta delle Nazioni Unite e della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo. La legislazione sovietica guidò la trasformazione nella concezione occidentale del diritto internazionale (inclusa la decolonizzazione), del diritto di famiglia, del diritto penale, del diritto contrattuale, di quello di proprietà e perfino della desegregazione razziale negli Stati Uniti. Nell'Occidente capitalista il rapporto fra diritto privato e diritto pubblico uscì sconvolto a favore di quest'ultimo. Con il muro di Berlino e con l'epurazione dei giuristi della Germania Est che seguì l'unificazione, caddero non soltanto un ideale ma l'anelito all'incusione sociale tramite il diritto che sopravviveva nella Repubblica democratica tedesca.
Senza incentivi esterni, in nome della flessibilità, dell'efficienza e del mercato siamo tornati all'autoritarismo bigotto dei padroni delle miniere, che esportiamo sotto la voce democrazia.
di Ugo Mattei, «il manifesto», 5 dicembre 2009
Un mondo di lacrime e sangue
È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che laborsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.
Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.
Di Cosma Orsi, «il manifesto», 25 novembre 2009
Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.
Di Cosma Orsi, «il manifesto», 25 novembre 2009
La sinistra europea senza idee né progetti
Il socialismo europeo sta attraversando una crisi profonda. Se lasciamo da parte le socialdemocrazie dei pae si scandinavi, dove la conlittualità sociale è meno acuta, e i neonati partiti socialisti dell’Europa dell’est, possiamo constatare che negli altri casi – Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia – i partiti socialisti vivono un periodo di grandi diicoltà. L’unica eccezione è la Spagna. In Francia la crisi è cominciata nel 2000 con il fallimento dell’esperimento della “sinistra plurale”. Alle politiche per il rilancio dell’economia del 1997 è seguita una linea più liberista a partire dal 1999. Lionel Jospin, allora leader socialista e primo ministro, è stato il simbolo di questo cambiamento di rotta. Quando la multinazionale all’aumento dell’astensionismo elettorale. In Gran Bretagna il simbolo del fallimento del New Labour è stata l’uscita di scena del suo ideatore, Tony Blair. A conti fatti, la tanto celebrata terza via non è stata altro che una riproposizione, più edulcorata e ammiccante, del thatcherismo, basato sullo smantellamento dei servizi pubblici e sulle privatizzazioni. Oggi il Partito laburista è in caduta libera. Durante l’ultimo congresso il leader Gordon Brown ha proposto un welfare state alternativo, fondato su un “nuovo modello economico, sociale e politico” e sulla “regolamentazione del mercato”. Ma non ha speciicato da dove dovrebbero arrivare le risorse per inanziare il suo progetto e non ha chiarito come intende convincere le classi medie, che chiedono più stato sociale e meno tasse allo stesso tempo. La Gran Bretagna non fa parte della zona euro e perciò ha più libertà nella gestione del debito pubblico e del deicit di bilancio, che hanno toccato rispettivamente l’80 e il 12,4 per cento del pil. Ma il numero dei disoccupati, che sono già tre milioni, è destinato ad aumentare: senza incentivi iscali e senza nuovi aumenti della spesa pubblica sembra impossibile salvare i posti di lavoro. Da Roma a Berlino In Italia la sinistra socialista si è disgregata negli anni novanta ed è stata risucchiata in un buco nero. La nascita del Pd, con l’alleanza tra ex comunisti e parte della Democrazia cristiana, ha avuto due conseguenze negative: la scomparsa del socialismo, inteso come progetto politico e ideologico, e la creazione di un ampio bacino elettorale per il populismo reazionario di Silvio Berlusconi. L’attuale crisi del berlusconismo più che giovare alla sinistra sta mettendo in evidenza la sua debolezza. In Germania il Partito socialdemocratico (Spd) è in crisi dal 2000, quando uno dei suoi leader, Oskar Lafontaine, riiutò di appoggiare la svolta liberista di Gerhard Schröder. Nel 2005 l’Spd ha perso le elezioni e ha accettato di formare un governo di coalizione con i cristianodemocratici Internazionale 823
27 novembre 2009 19 (Cdu). Abituati a tessere alleanze con la destra, i socialdemocratici non hanno saputo proporre soluzioni credibili di fronte alla crisi e oggi sono il partito della sinistra europea in maggiore diicoltà. Oltre a subire la spaccatura voluta da Lafontaine, fondatore del partito di sinistra Die Linke, dal 1998 l’Spd ha perso circa dieci milioni di voti, anche a favore di verdi, liberali e cristianodemocratici, e la recente elezione alla presidenza di Sigmar Gabriel, un centrista senza un proilo ideologico deinito, non sembra suiciente a cambiare le cose. Un nuovo welfare Questa breve panoramica ci permette di individuare alcune tendenze di fondo. Prima di tutto i partiti socialisti occidentali negli anni novanta hanno accettato di adattarsi alla globalizzazione, scegliendo la cosiddetta terza via: non solo non hanno oferto un progetto alternativo al loro elettorato tradizionale (le classi medie e popolari), ma non hanno nemmeno compreso tutte le conseguenze della loro scelta. In questo modo sono diventati più aidabili dal punto di vista governativo, ma hanno smarrito gran parte della loro identità. Da qui deriva il paradosso attuale: i partiti socialisti sono travolti dalla crisi del liberalismo, mentre la destra liberale non esita ad applicare le ricette tradizionali del welfare per afrontare la recessione. In altri termini la destra si sta dimostrando più pragmatica della sinistra che, abbandonate le idee socialiste, si è ciecamente aidata alle virtù del social-liberismo. In Europa occidentale, inoltre, le forze di sinistra sono incapaci di reagire di fronte allo spostamento a destra della società: un fenomeno che è il risultato dell’instabilità creata dalla deregulation economica e sociale degli ultimi anni e che si traduce in una forte domanda di sicurezza (sociale, economica e identitaria) e in un ritorno al nazionalismo. Queste due tendenze di fondo, presenti ovunque in Europa, mettono a nudo la grave crisi d’identità della socialdemocrazia, ormai priva di un progetto speciico. In questi ultimi 15 anni la vittoria del liberismo non è stata solo economica, è stata soprattutto ideologica e culturale. La sinistra non sembra avere più gli strumenti, i metodi o la visione per interpretare il mondo e per agire. E ha sempre maggiore diicoltà a diferenziarsi dalla destra. Questa mancanza di progetti e idee viene mascherata da una retorica fondata sulla difesa dei suoi valori tradizionali: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà e la tolleranza. Il punto è che i partiti socialisti sembrano ricordarsi dell’importanza di questi valori solo quando sono all’opposizione per dimenticarsene quando vanno al governo. I socialisti europei si trovano di fronte a un bivio cruciale: o mettono a punto un progetto credibile o sono destinati a scomparire lentamente. Che fare di fronte alla crisi della globalizzazione? Come reagire al riiuto degli europei nei confronti del liberismo? Come afrontare la delusione e lo scetticismo delle classi popolari e medie? La nascita di un nuovo welfare europeo, oggi più necessario che mai, dipende dalle risposte che la sinistra europea riuscirà a dare a queste domande. s b
L’AUTORE Sami Naïr è un politologo francese di origine algerina. Insegna all’università Paris VIII e collabora con diversi giornali europei, tra cui El País e Libération.
di Sami Naïr, «El País», Spagna da «L'Internazionale»
27 novembre 2009 19 (Cdu). Abituati a tessere alleanze con la destra, i socialdemocratici non hanno saputo proporre soluzioni credibili di fronte alla crisi e oggi sono il partito della sinistra europea in maggiore diicoltà. Oltre a subire la spaccatura voluta da Lafontaine, fondatore del partito di sinistra Die Linke, dal 1998 l’Spd ha perso circa dieci milioni di voti, anche a favore di verdi, liberali e cristianodemocratici, e la recente elezione alla presidenza di Sigmar Gabriel, un centrista senza un proilo ideologico deinito, non sembra suiciente a cambiare le cose. Un nuovo welfare Questa breve panoramica ci permette di individuare alcune tendenze di fondo. Prima di tutto i partiti socialisti occidentali negli anni novanta hanno accettato di adattarsi alla globalizzazione, scegliendo la cosiddetta terza via: non solo non hanno oferto un progetto alternativo al loro elettorato tradizionale (le classi medie e popolari), ma non hanno nemmeno compreso tutte le conseguenze della loro scelta. In questo modo sono diventati più aidabili dal punto di vista governativo, ma hanno smarrito gran parte della loro identità. Da qui deriva il paradosso attuale: i partiti socialisti sono travolti dalla crisi del liberalismo, mentre la destra liberale non esita ad applicare le ricette tradizionali del welfare per afrontare la recessione. In altri termini la destra si sta dimostrando più pragmatica della sinistra che, abbandonate le idee socialiste, si è ciecamente aidata alle virtù del social-liberismo. In Europa occidentale, inoltre, le forze di sinistra sono incapaci di reagire di fronte allo spostamento a destra della società: un fenomeno che è il risultato dell’instabilità creata dalla deregulation economica e sociale degli ultimi anni e che si traduce in una forte domanda di sicurezza (sociale, economica e identitaria) e in un ritorno al nazionalismo. Queste due tendenze di fondo, presenti ovunque in Europa, mettono a nudo la grave crisi d’identità della socialdemocrazia, ormai priva di un progetto speciico. In questi ultimi 15 anni la vittoria del liberismo non è stata solo economica, è stata soprattutto ideologica e culturale. La sinistra non sembra avere più gli strumenti, i metodi o la visione per interpretare il mondo e per agire. E ha sempre maggiore diicoltà a diferenziarsi dalla destra. Questa mancanza di progetti e idee viene mascherata da una retorica fondata sulla difesa dei suoi valori tradizionali: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà e la tolleranza. Il punto è che i partiti socialisti sembrano ricordarsi dell’importanza di questi valori solo quando sono all’opposizione per dimenticarsene quando vanno al governo. I socialisti europei si trovano di fronte a un bivio cruciale: o mettono a punto un progetto credibile o sono destinati a scomparire lentamente. Che fare di fronte alla crisi della globalizzazione? Come reagire al riiuto degli europei nei confronti del liberismo? Come afrontare la delusione e lo scetticismo delle classi popolari e medie? La nascita di un nuovo welfare europeo, oggi più necessario che mai, dipende dalle risposte che la sinistra europea riuscirà a dare a queste domande. s b
L’AUTORE Sami Naïr è un politologo francese di origine algerina. Insegna all’università Paris VIII e collabora con diversi giornali europei, tra cui El País e Libération.
di Sami Naïr, «El País», Spagna da «L'Internazionale»
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